#RacingFuels – La Lola che ispirò Le Mans

16/09/2017

Siamo nei primi anni 2000, l’inizio del Nuovo Millennio e anche di una nuova era per i motori a gasolio. Come abbiamo infatti visto nella storia della BMW 320d E36 e del Common Rail, questi propulsori hanno ormai raggiunto un livello di evoluzione tecnica e prestazione tale da renderli quasi alla pari dei motori a benzina.
Il loro abituale terreno nelle competizioni sono state le gare di durata, in quegli anni dominate da prototipi che sperimentavano soluzioni all’avanguardia. Su uno di questi, la Lola B2K/10 B Caterpillar, un diesel di origine Volkswagen cambierà la classe per gli anni a venire, fino alle edizioni più recenti. Scopriamo di più su questa musa ispiratrice nell’appuntamento odierno con #RacingFuels!

Nel corso delle varie rubriche targate Sports Car Legends, abbiamo già incontrato la Lola Racing Cars. Fondata a Bromley (UK) nel 1958 da Eric Broadley, questa casa di automobili da corsa si è distinta negli anni in diversi campionati. Dapprima nata come produttrice di auto sportive stradali, già nel 1962 debuttò in Formula 1 restandovi fino al 1997, seppur in varie reincarnazioni e vesti (team autonomo, partner o fornitore di telai). Ricche di successi furono le esperienze nel campionato CanAm, durata dal 1966 al 1974, e nella Formula 5000, dal ’71 al ‘76. Degna di nota il trionfo alla 500 Miglia di Indianapolis del 1966,  mentre nel 1978 il vincitore corse con un telaio Lola modificato. Vari altri campionati in serie americane, in Formula 3000 e Formula 3 completano così un curriculum da fare invidia a molti costruttori.
Il nostro racconto si concentra però su quanto fatto dal telaista britannico nel campionato Sport Prototipi. Le radici affondano negli anni ’60, con il coinvolgimento di Broadley nel progetto Ford GT40 e la fornitura di telai ad alcune scuderie. Negli anni ’90 si era ormai consolidata la partecipazione della Lola alla competizione, con auto proprie o fornite a scuderie clienti. Nel 2004 una di queste, la Taurus Sports Racing di Norfolk (UK), tentò qualcosa di nuovo o quasi. Erano ormai più di 50 anni che sul Circuit de la Sarthe non si vedevano auto a gasolio, ovvero dall’ultima partecipazione dei fratelli Delettrez nel 1951, primissimi a tentare l’impresa nel ’49.

Dopo la fallimentare 1000 km di Monza del 2004, dove la vettura non prese nemmeno il via alla gara per un problema tecnico, per l’imminente 24 Ore di Le Mans si puntava al riscatto. Sfruttando il ritiro della Bentley dalla manifestazione dopo la fine del suo impegno triennale, la Taurus iscrisse 2 vetture: una montava il classico motore a benzina Judd V10 da 4.0 l, l’altra come detto un propulsore diesel.
Il team inglese si rivolse per la fornitura alla Volkswagen, che declinò però l’offerta: il progetto era pressoché sperimentale e quindi con un alta probabilità di insuccesso, per cui la casa di Wolsfburg  non volle rischiare la propria immagine in una gara dalla così grande risonanza internazionale, per di più senza avere in prima persona il pieno comando delle operazioni di sviluppo.
La Taurus, comunque fortemente intenzionata a puntare sui motori a gasolio marchiati VW, ricorse allora a un vecchio espediente. Acquistò da un rivenditore locale 2 VW Touareg dotate di V10 TDI e per le modifiche del caso si affidò alla Caterpillar, nota azienda di mezzi pesanti tra cui i famosissimi bulldozer. Al programma di tuning parteciparono anche Pi Technology e Mountune, per un assalto tutto britannico a Le Mans. Rimarchiando poi il propulsore come Caterpillar, non vi furono ostacoli da parte di Volkswagen.

L’architettura di base rimase a V di 90°, con testa in lega d’alluminio pressofuso, blocco in lega d’alluminio pressofuso a bassa pressione (AlSi8Cu3) imbullonato a un tunnel dei cuscinetti in ghisa lamellare.
L’albero a gomiti, con supporto a 6 cuscinetti principali, era a croce trasversale in acciaio pressofuso con inclinazione di 18° per ottenere un angolo di fasatura di 72°.
La distribuzione era monoalbero (SOHC), con 2 valvole per cilindro per un totale quindi di 20 valvole.
Erano anche presenti contralbero di bilanciamento, carter secco e 2 flange in aspirazione da 37,2 mm ciascuna.
Il 4 tempi diesel conservava la cilindrata di 4.921 cc (81,0 x 95,5 mm), ma con l’adozione di 2 turbocompressori Garret e di iniezione diretta multipoint gestita da una centralina Pectel, i 353 CV originari schizzarono a 580 (per le Mans furono limitati a 500 CV), con coppia massima di 1.050 Nm a 2.500 giri/min.
Ne derivavano una velocità massima di poco superiore ai 320 km/h e un’accelerazione a 0 a 100 km/h in circa 3 s.

Il telaio derivava da quello della B2K/10 che debuttò nel 2000 alla 12 Ore di Sebring: 4.640 mm di lunghezza, 1.990 mm di larghezza e passo di 2.800 mm per un peso che partiva da un minimo di 900 kg.
Sospensioni indipendenti di tipo pushrod all’anteriore e al posteriore, con freni carboceramici di 15″ di diametro e 37 mm di spessore.
Cerchi da 13” (o da 13,5”) con pneumatici Dunlop da 655 mm di diametro all’anteriore e cerchi da 14,5” con gomma da 724 mm al posteriore.
Infine il cambio era un sequenziale a 6 rapporti e il serbatoio poteva contenere fino a 90 l.
L’evoluzione denominata B differiva dall’originale per diversi miglioramenti aerodinamici tra cui un miglior effetto suolo, raffreddamento di trasmissione e freni potenziato e un più facile accesso alle parti meccaniche frontali senza dover smontare il musetto.

La vettura fu affidata all’equipaggio composto dai britannici  Phil Andrews e Calum Lockie, con il belga Anthony Kumpen a completare il terzetto. Come sempre per i diesel, il punto forte stava nei consumi che si attestavano a circa 3,5 km/l contro i 2 km/l delle rivali a benzina. La Taurus non fece però in tempo a sfruttare questo vantaggio siccome la frizione e il cambio, nonostante il depotenziamento del motore, non resistettero alle notevoli sollecitazioni dell’unità diesel, rompendosi dopo appena 35 giri. 
Per la cronaca l’altra vettura del team di Norfolk, quella a benzina, terminò al 20° posto e perciò lontano dalla top 6 che era la speranza iniziale. La Lola Caterpillar fece invece un’ultima apparizione a Silverstone, raccogliendo purtroppo un altro insuccesso.

L’avventura della Lola B2K/10 B Caterpillar sembrerebbe quindi un fiasco completo. Non pensiamo però sia un caso che soltanto un biennio dopo, nel 2006, un grande costruttore come Audi intuisca che sia giunto il momento per i prototipi a gasolio di trionfare a Le Mans. Che sia stata la prova del V10 TDI sulla Lola a far definitivamente cambiare idea al Gruppo Volkswagen, così restio nel 2004 ad imbarcarsi nell’impresa? Noi riteniamo proprio di sì! 😉
Per scoprire nei dettagli come la casa dei quattro anelli abbia contribuito alla storia del diesel da corsa, non ti rimane che continuare a seguirci nella prossima puntata di #RacingFuels!!

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– la Squadra Storie SCL

#RacingFuels – Una bavarese spinta dalle idee italiane

09/09/2017

Ogni Paese di grande storia motoristica ha un circuito simbolo. L’Italia ha Monza, la Francia ha Le Mans, il Belgio ha Spa-Francorchamps, gli USA hanno Indianapolis, la Germania ha il Nürburgring. Proprio nell’Inferno Verde è ambientata la storia di oggi.
Dopo che negli anni ’80 lo sviluppo del motore a gasolio ha visto i camion della Dakar protagonisti, sul finire degli anni ’90 sarà un’automobile tedesca, con tecnologia tutta italiana, a far maturare definitivamente l’idea che il diesel possa essere sportivo, anche sulle macchine pressoché di serie.
Allacciate le cinture, si parte con #RacingFuels alla scoperta della BMW 320d E36!

L’avere la stessa considerazione dei motori a benzina, traguardo a lungo agognato dalla creatura di Rudolf Diesel, non poteva che avvenire in Germania e in una gara di durata. Il Nürburgring era già dal 1953 casa della 1000 chilometri, gara dedicata a piloti professionisti e a prototipi. Nel 1970 l’ADAC (Automobilclub Tedesco) introdusse anche un’alternativa per i piloti a livello dilettantistico, con auto strettamente derivate da quelle di serie: nacque così la 24 Ore del Nürburgring, con chiara ispirazione alle 24 Ore di Le Mans e di Spa.
A ridosso degli anni Duemila la regina di questa competizione era la BMW E36, terza incarnazione della Serie 3. A questa vettura si affidò per l’edizione 1998 il team Schnitzer Motorsport, volendo sfruttare i bassi consumi del diesel da poco rivoluzionato dal genio italico: stiamo ovviamente parlando della tecnologia Common Rail.

La storia del Common Rail, italianizzabile come “collettore comune”, cominciò grazie ai ricercatori del Politecnico di Zurigo negli anni ’30, per essere poi utilizzata in ambito navale e ferroviario attorno agli anni ‘40. Tale tecnologia sembrava però inapplicabile al campo automobilistico.
Nel 1990 ebbe inizio una collaborazione tra Magneti Marelli, Centro Ricerche Fiat di Orbassano (TO) ed Elasis di Modugno (BA), per studiare un’evoluzione dei propulsori a gasolio. Nel centro ricerche barese dell’allora Gruppo Fiat lavorava la squadra di Mario Ricco, che a tutti gli effetti detiene la paternità dell’invenzione. In quel periodo c’era aria di tagli al personale: per non finire riqualificati come operai, come rivelato dallo stesso dott. Ricco, i ricercatori dovettero inventarsi un nuovo motore. E così fecero, portando il diesel in una nuova era.
La chiave sta proprio nel condotto comune che fornisce il nome: una pompa ad alta pressione pressurizza il combustibile già a bassissimi giri motore, trasferendolo poi al common rail che funge perciò da serbatoio di accumulo. Il livello di pressione è regolato tramite una valvola elettronica dalla centralina del motore, che mantiene così il combustibile pressurizzato sempre pronto nel condotto comune. Questo, associato a valvole degli iniettori anch’esse a controllo elettronico e quindi rapide e precise, permette più iniezioni per ogni ciclo di lavoro. I vantaggi sono perciò una combustione più ordinata, con conseguente diminuzione delle emissioni di gas incombusti e dei consumi, oltre ad un sensibile aumento delle prestazioni. Si può affermare che il sistema di pre-iniezione renda il Common Rail molto più simile ai motori ad accensione, ovvero i motori a benzina, che ad un tradizionale motore ad accensione spontanea come quelli a gasolio.
Dopo la fase di pre-industrializzazione made in Italy, nel 1994 il progetto fu ceduto ai tedeschi di Bosch (su pressione della Mercedes-Benz, storicamente attenta alle sorti del diesel), che si occuparono di industrializzazione e commercializzazione. Il debutto su auto di serie avvenne nel 1997, con le Alfa Romeo 156 1.9 JTD e 2.4 JTD: l’accordo prevedeva che per 2 anni la tecnologia fosse esclusivamente appannaggio delle vetture del gruppo Fiat, comportandone una diffusione sul mercato globale solo dopo il 2000.

Come anticipato la Schnitzer Motorsport fu però precorritrice dei tempi: al propulsore 2.0 l di serie della casa bavarese, nel ’98 montato sulla BMW 320d E46 di serie, venne installato il sistema Common Rail fornito da Bosch, aumentando sensibilmente le prestazioni fin lì lontane da un uso competitivo. I cavalli salirono da 136 a 200, permettendo un confronto con la 320i.
Per il resto la 320d usata alla 24 Ore risultava pressoché identica alla sua omologa a benzina, seguendo il rigido regolamento della Super Tourenwagen Cup, molto meno permissivo in fatto di modifiche rispetto al DTM. Senza poter adottare materiali superleggeri per la scocca o eccessive appendici aerodinamiche, la E36 fu semplicemente alleggerita negli interni (niente moquette, materiale fonoassorbente e via dicendo), dotata di roll cage per la sicurezza, sedile a guscio da gara con cintura di sicurezza a più punti e volante da competizione senza servosterzo (per aumentare precisione e ridurre al contempo il peso).
Freni a 4 pistoncini con dischi da 345 mm (anteriore) and 280 mm (posteriore), cerchi da 19 pollici con dado centrale e infine cambio sequenziale a 6 rapporti completavano la dotazione.

Due le auto del team che presero parte alla gara: una con al volante il terzetto Hans-Joachim Stuck / Steve Soper / Didier De Radigues e una con Christian Menzel, Marc Duez e Andreas Bovensiepen (figlio del fondatore e co-proprietario dell’Alpina).
Dopo 6 ore di battaglia entrambe le 320d erano in testa. La vettura di Stuck, De Radigues e Menzel fu però poco dopo costretta al ritiro da un guasto elettrico, mentre la rimanente E36 diesel che invece resistette fino alla fine, con Stuck che si aggiunse come quarta guida dopo il guasto della sua auto.
L’intuizione di sfruttare i bassi consumi, che portò ad iniziare questa avventura nell’Inferno Verde, si rivelò corretta e soprattutto decisiva: per completare i 137 giri in 24 ore, equivalenti a 3343 km, furono infatti necessari rifornimenti solamente ogni 4 ore, con le altre vetture, comprese le “cugine” M3, lasciate a perdere molto tempo prezioso ai box.

La prima vittoria di un diesel, analogamente a quanto successo con l’exploit della Cummins Diesel alla Indy 500 del 1952, portò ad un cambio di regolamento: dal 1999 fu permessa l’iscrizione di vetture GT di gran lunga più potenti della 320d, cancellando il vantaggio dato dalle minori soste.
Questa volta però non sarà necessario aspettare decenni per la successiva affermazione di un diesel nelle gare. Il 2004 vedrà infatti le gesta a Le Mans di un prototipo della Lola: se ci segui assiduamente ricorderai di aver già incontrato questa casa automobilistica nella rubrica #CiakSiCorre, parlando di Paul Newman Patrick Dempsey.
Al prossimo appuntamento con #RacingFuels per continuare il racconto!

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– la Squadra Storie SCL

#RacingFuels – Veronesi “tuti mati”

02/09/2017

Gli obiettivi: nella vita quotidiana come nello sport cambiano da persona a persona, nel nostro caso da veicolo a veicolo. Se il “mostruoso” DAF 95 TurboTwin, protagonista della scorsa puntata, si prefiggeva di diventare una pietra miliare dei prototipi tramite prestazioni e soluzioni meccaniche al limite, all’opposto vi è il Perlini 105F 4×4. Poco più che un normale mezzo pesante industriale, dotato solo di qualche elaborazione specifica qua e là, si dimostrò così performante, affidabile e vincente da meritarsi, tra gli Appassionati, il soprannome di “Delta dei camion”.
Abbiamo trovato l’odierno protagonista a gasolio di #RacingFuels, non ci resta che raccontarne l’avventurosa storia!

Impossibile comprendere appieno la storia alla Dakar di Perlini senza conoscere prima il suo retaggio industriale. Nel 1958 Roberto Perlini, veneto di San Bonifacio (VR) fino ad allora meccanico e autista di camion, fondò la sua compagnia di trasformazione di autocarri (Fiat, Lancia, OM, etc., tutti italiani) e di costruzione di contenitori per cemento sfuso. Da allora la crescita fu rapida e costante, fino ad arrivare ad un colosso industriale che negli anni ’80 poteva vantare al suo interno tutta filiera di produzione del mezzo pesante: dalla progettazione telaistica allo sviluppo di ingranaggeria, trasmissioni e differenziali, solo i motori (di fabbricazione Detroit Diesel) e gli pneumatici provenivano da fornitori esterni.
Da sottolineare il livello d’avanguardia che raggiunse. Trazione integrale, cambio a gestione elettronica attiva sincronizzato con le necessità del motore, sovralimentazione con compressore volumetrico a basso regime, in accoppiamento con turbocompressore che gli subentra dai medi regimi (come e prima della Lancia Delta S4): tutte soluzioni che permettevano ai camion Perlini di muoversi con nonchalance nelle cave, nei grandi cantieri delle opere pubbliche o nell’uso militare, tutti scenari per loro abituali.
Due le tappe fondamentali della storia della compagnia veneta: nel 1961 la nascita del Damper, il classico camion con cassone ribaltabile da allora diventato iconico; i contatti con la Cina tra il ’69 e il ’72, che fecero di Perlini il primo europeo occidentale a contribuire all’apertura dei rapporti con Mao Tse Tung, non solo commerciali con la vendita di mezzi pesanti e i corsi di formazione ai dipendenti cinesi, ma anche diplomatici divenendo punto di riferimento del governo per mediazioni e consulenze.

Si possono dedurre lo spirito di innovazione e la capacità di cogliere le grandi occasioni propri dell’azienda e non ci si stupisce quindi di come, in modo quasi casuale, sia nata l’avventura sportiva di Perlini. Nel 1987 Jacques Houssat, capo collaudatore Michelin e veterano dei rally raid africani, si reca nella sede della compagnia per alcuni test sugli pneumatici ad uso industriale. Il mezzo utilizzato era un 3 assi, di cui 2 sterzanti e dedicati alla trazione e 1, quello centrale, fisso. Sceso dal veicolo al termine delle prove, si sofferma a discutere con Francesco Perlini, figlio di Roberto che si occupava della parte tecnica e di collaudo, di come le indubbie qualità di guida del loro camion si sposerebbero alla grande con la Parigi-Dakar. Convincere Francesco fu un attimo e iniziò così la preparazione per il debutto alla Dakar 1988.
Inizialmente, come pilota del neonato 105F 4×4 da gara, venne scelto l’esperto Clay Regazzoni, ex campione di F1 che si dedicava ai rally raid dopo la paralisi occorsagli in seguito ad un incidente a Long Beach nel 1980. Il pilota svizzero però si ritirò dal progetto a soli 10 giorni dalle verifiche per la gare, quasi costringendo Francesco Perlini a prendere il suo posto: essere a 27 alla guida di un bestione da 12 tonnellate ne deserto, nonostante la grande esperienza come collaudatore, non deve essere stato facile!

Con quale mezzo si presentò la Perlini alla Parigi-Dakar del 1988? Come anticipato, il 105F 4×4 deriva strettamente dal 3 assi di serie testato da Houssat, discostandosi notevolmente dal concetto di camion/prototipo appositamente progettato per la competizione africana.
Partiamo dal motore, un Detroit Diesel 2 tempi a 8 cilindri da 12 l, sovralimentato con compressore volumetrico da 1.500 giri/min e con turbocompressore al di sopra di tale regime, era dotato naturalmente anche di un intercooler. Montato in posizione centrale per una migliore distribuzione dei pesi fra gli assi, beneficiava di una messa a punto specifica della centralina, che non solo portava la potenza dai 480 CV originali a 550 CV a 2.300 giri/min, ma migliorava anche l’allungo (sempre nei limiti di un propulsore per uso industriale) a discapito della spinta ai bassi regimi. La coppia era di ben 2.089 Nm a 1.200, trasmessa alle ruote grazie ad un cambio manuale a 8 rapporti sincronizzati.
Proprio il cambio (uno ZF 4 SGPA 150) era uno degli elementi con più modifiche specifiche: gli ingranaggi e il sistema di raffreddamento (con scambiatore di calore col circolo dell’acqua) rimanevano perfettamente uguali a quelli di serie, con però la disposizione delle marce invertita in modo che i rapporti più lunghi, maggiormente utilizzati in gara, fossero più vicini al pilota, che con gesti meno ampi da eseguire si sarebbe stancato meno facilmente.
Lo sterzo era fornito di doppia idroguida per attenuare lo sforzo, comunque nell’ordine dei 40 kg; il comando rimase comunque diretto per le necessità di maneggevolezza, con la sterzatura dell’asse posteriore disinseribile anche in marcia.
Per quanto riguarda il corpo, venne eliminato l’asse centrale, così da fornirgli la leggerezza e l’agilità necessarie ad affrontare situazione limite.
Le sospensioni, uno dei punti di forza del mezzo, erano di tipo oleopneumaitco con ponti rigidi indipendenti dall’escursione di 375 mm; verranno irrobustite nel tamponamento interno dopo che saranno protagoniste di un fastidioso guasto durante una prova.
I freni, tutti a disco autoventilante, avevano diametro 470 mm e spessore 42 mm ed erano dotati di doppie pinze: un sistema di tutto rispetto, che aveva a che fare con il notevole peso di 12.800 kg in ordine di gara.
La massa era di 10.900 kg a vuoto, più 860 l di carburante nei 2 serbatoi, 100 l di liquido refrigerante per i radiatore, 45 l di olio motore, 50 l nel serbatoio dell’acqua potabile, 2 ruote di scorta, attrezzi, ricambi, piastre anti-sabbia, i 3 uomini dell’equipaggio e anche altro peso derivante dai sistemi di lubrificazione e raffreddamento di sospensioni, cambio, freni, idroguide, differenziali, etc.
La trazione integrale permanente era garantita da 3 differenziali (1 per asse più il centrale), tutti bloccabili singolarmente o insieme direttamente dall’abitacolo.
L’impianto elettrico, già a norma dei rigorosissimi test NATO, fu ulteriormente potenziato per garantire affidabilità e resistenza assolute.
Per un’avventura come la Dakar erano necessarie “calzature” adeguate, ecco quindi le Michelin XS specifiche per le competizioni, con misure 14”x25” da sabbia (adatte fino a 160 km/h) e 17,50”x25” (con battistrada più aggressivo) per il fango; le pressioni di gonfiaggio variavano da 2,5 atm su fondi compatti a 0,5-1,0 atm su terreni cedevoli.
Tra gli accorgimenti specifici è da segnalare il filtro/separatore di impurità del gasolio, indispensabile in Africa, che tramite centrifuga scindeva il 99% dei corpi estranei presenti nel carburante.
Internamente la cabina presentava innanzitutto controlli elettrici il più ergonomici possibile per il meccanico seduto nel posto centrale; il navigatore poteva invece contare su un supporto, facilmente posizionabile anche davanti ad un altro membro dell’equipaggio, che conteneva il trip master e la bussola elettronica. Sedili anatomici (accorciati per permettere la seduta più raccolta tipica dei camion), cinture da competizione, pedane poggiapiedi, roll-bar interno ed esterno ed estintori completavano la dotazione.
Col tempo, l’esperienza portò numerose altre modifiche. Ad esempio il parabrezza diviso in due parti, per avere ricambi più leggeri e facili da sostituire. Oppure lo spoiler interno anteriore, che proseguiva internamente alla struttura: permetteva non solo di convogliare ulteriore aria per il raffreddamento del motore centrale, ma forniva anche quella deportanza aerodinamica necessaria a non far “galleggiare” l’asse anteriore alle massime velocità.

A proposito di prestazioni, il Perlini 105F 4×4 raggiungeva i 148 km/h, con uno scatto da 0 a 100 km/h in 22 s. Vigoroso già ai 1.500 giri/min, il suo range ideale di utilizzo era tra i 1.600 e i 2.300 giri/min, dove risultava sempre vivace e reattivo anche grazie ad un cambio sempre facile da manovrare, con la soluzione di rovesciare la disposizione delle marce molto azzeccata.
Le 4 ruote sterzanti facevano la differenza donando un raggio di sterzata insospettabile per un bestione del genere. I freni, potenti e infaticabili, infondevano una grande sicurezza. La caratteristica però peculiare era la capacità di affrontare in scioltezza i terreni molto accidentati, con rocce, buche e scanalature anche di 70-80 cm: mentre le auto, o comunque veicoli più piccoli, dovevano rallentare per non rischiare di cadere a pezzi o diventare ingovernabili, il Perlini poteva permettersi andature nell’ordine degli 80 kmh, che compensavano i tratti veloci dove ovviamente pagava pegno.
Tutte queste prestazioni per circa 250.000.000 Lire (150.000.000 Lire il prezzo della versione di serie), molto poco rispetto agli investimenti miliardari delle case ufficiali come Peugeot-Citroën. La partecipazione invece costava circa 500.000.000 Lire alla compagnia veneta: 300.000.000 Lire per test e sviluppo, 200.000.000 Lire per la partecipazione vera e propria (rifornimenti, ricambi, trasferte, etc.). Erano comunque investimenti che fornivano, oltre ad un notevole ritorno pubblicitario, anche la possibilità di sperimentare nuove soluzioni tecniche all’avanguardia, spendibili poi nella normale produzione di serie.

Tre furono i camion gemelli allestiti per il debutto del 1988, uno per l’equipaggio Perlini-Morigi-Vinante, uno per Houssat-De Saulieu-Bottaro e uno infine per Biffideni-Antolini-Boni. Il team del collaudatore francese ottenne un notevole 4° posto assoluto tra i camion (1° tra quelli di serie), con gli altri due equipaggi costretti invece al ritiro. Per vedere la prima vittoria del gigante veneto non si dovette aspettare molto, con il trionfale Rally dei Faraoni 1988. Questa vittoria aprì un ciclo con 4 successi consecutivi nella categoria camion tra il 1990 e il 1993, riuscito nella storia solo a Mercedes-Benz negli anni ’80 e ai russi di Kamaz tra il 2002 e il 2006. Ultima ma non meno importante è la vittoria alla Parigi-Mosca-Pechino del 1993.

Tantissimi gli aneddoti da ricordare. Ad esempio di quando nel 1991 Francesco Perlini, per dimostrare la solidità dei suoi camion, partì per la Dakar senza pezzi di ricambio: inutile dire come questa eccesiva spavalderia gli fu “fatale”, con la rottura di una sospensione che lo portò al ritiro in quell’edizione.
Tutto il suo ingegno si mise comunque in mostra in un’altra occasione di quella stessa edizione. Durante una tappa l’equipaggio calcolò di avere circa 2 l di carburante in meno rispetto a quello per terminare con tranquillità la giornata lunga 600 km: la soluzione più naturale fu quella di urinare nel serbatoio per diluire il gasolio e, forse sorprendentemente, funzionò alla grande!
Aneddoti decisamente più romantici sono quelli sulla solidarietà tra equipaggi rivali. In un’epoca in cui il GPS non era ancora previsto, capitava spesso che molti veicoli fossero ancora in marcia durante la notte, traditi da cartine e bussole. In queste condizioni erano la norma bivacchi improvvisati dove ci si divideva il cibo, magari una scatoletta di tonno con Vatanen o un piatto di pasta con un conterraneo fin lì mai conosciuto: è il caso di Francesco Perlini e un pilota di camion sopraggiunto nel cuore della notte, offrendo una bombola di gas per cucinare un piatto di pasta; inutile dire che sono poi rimasti amici negli anni a venire.
Nonostante questi momenti, le differenze tra equipaggi erano notevoli. I team ufficiali di grandi case, come Peugeot-Citroën potevano contare su schiere di meccanici per minuziose riparazioni, docce calde, pasti sempre abbondanti e tende comode per riposare. Squadre più “all’avventura” invece passavano giorni senza lavarsi, mangiando male e dormendo poco per via delle riparazioni notturne.
Come in tutte le situazioni i più abbienti vengono visti di cattivo occhio, siccome molte volte a questa superiorità economica si aggiungono comportamenti altezzosi. Come quando Perlini trasportò pezzi di ricambio per la Citroën ZX di Vatanen, ricevendo come ringraziamento solo delle magliette per l’equipaggio. Non fu però il caso di Jean Todt, che si levò il cappello dinnanzi alle imprese del camion veneto. Direttamente a Francesco disse: “Chapeau monsieur Perlini, noi spendiamo 15 miliardi all’anno (di lire o di franchi, ndr) per sviluppare i nostri motori e poi ci arriva davanti il suo camion”.

Tanto di cappello veramente, di fronte ad un camion che ha incarnato appieno i concetti di affidabilità e performance.Il Perlini ha infatti dimostrando come, grazie questa volta al genio dei tecnici italiani, come l’evoluzione del motore diesel sia arrivata ad un punto tale da permettere ad un mezzo pesante, per di più praticamente di serie, di tener testa a prototipi iper evoluti mascherati da normali autovetture.
Non mancare alla prossimo appuntamento con #RacingFuels, torneremo alle piste con una rombante bavarese a gasolio!

Qui sotto puoi gustarti la galleria di immagini del Perlini 105F 4×4.
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#RacingFuels – Là dove osano i camion

19/08/2017

Il Motorsport non è solo auto, argomento principe qui a Sports Car Legends. Lo si vede bene soprattutto in competizioni come la Parigi-Dakar, dove auto, camion e moto corrono fianco a fianco. Benché gareggino in classifiche diverse, a volte queste tre categorie di mezzi sono giunte a confronto diretto: il caso storicamente più eclatante è sicuramente quello del DAF 95 TurboTwin X1 che si dimostrò alla pari, se non più performante, della miglior vettura partecipante all’epoca, la Peugeot 405 Turbo 16 Grand Raid.
Ma andiamo con ordine in questa nuova puntata di #RacingFuels, dove questo vero e proprio titano a gasolio evidenzierà nuove potenzialità dei motori diesel.

L’originale Parigi-Dakar era negli anni ’80 il rally più duro e pericoloso al mondo. Non solo si aveva a che fare, come nelle edizioni sudamericane moderne, con ostacoli naturali come deserti, temperature elevate e terreni imprevedibili.
Innanzitutto il GPS non era ancora fido compagno di viaggio, portando molto spesso gli equipaggi a perdersi tra le dune: quando successe nel 1982 a Mark Thatcher, figlio del primo ministro britannico Margaret Thatcher, la colossale spedizione di recupero che ne conseguì diede un tale ritorno mediatico alla competizione da accrescerne il fascino e la leggenda.
Non era da sottovalutare neanche la situazione instabile del continente africano, che aggiungeva ulteriore pathos alla manifestazione. Ecco quindi i furti di mezzi nella notte: chiedere ad Ari Vatanen, che ritrovò sì la sua 405 T16 in mezzo alle dune, ma non in tempo per evitare la squalifica dall’edizione 1988. Oppure i ritardi di ore nei traghetti fluviali come racconta Renato Pozzetto, navigatore d’eccezione in più di un’occasione.

Per affrontare tale “andata e ritorno all’inferno”, il pilota olandese di rallycross Jan De Rooy scelse i camion dell’azienda connazionale DAF. Dalla stagione di esordio datata 1982, i mezzi inviati alla Dakar furono sempre più raffinati per continuare le vittorie e i prestigiosi risultati che via via si andavano a collezionare.
Non solo l’affidabilità doveva essere al top, per via dei forti stress a cui andava incontro la meccanica, ma anche le prestazioni stavano acquisendo sempre più rilevanza anche nella classe riservata ai mezzi pesanti. Il turbo divenne l’asso nella manica da giocare, come nel caso della Peugeot 505 SRDT nei rally. Già nel 1986 con il FAV 3600 4×4 TurboTwin (squalifica alla 15^ tappa) e nel 1987 con il FAV 3600 4×4 TurboTwin II (vincitore), De Rooy ottenne già grandi risultati, ma il suo a dir poco impressionante sistema propulsivo raggiunse l’apice nel 1988.
Si tratta di 2 motori diesel 6 cilindri in linea da 11.600 cc ciascuno, entrambi dotati di 2 turbocompressori, ma non finisce qui: ognuno dei due motori era provvisto di un ulteriore turbo per fornire aria precompressa agli altri due e diminuire così il turbo lag, portando il totale a 6 turbo su un solo veicolo! I due propulsori erano poi posizionati uno a fianco dell’altro in posizione centrale, con il compito di dare trazione ciascuno ad un asse per creare una trazione integrale senza giunti di trasmissione, quindi più solida. Il risultato di cotanta maestosità motoristica erano una potenza di 1.220 CV (610 CV per ogni motore) e 4.700 Nm di coppia (2350 Nm per ognuno).
A sostenere cotanta esuberanza c’era un semplice ma resistente telaio tubolare in alluminio (evoluzione del telaio in acciaio dei due camion precedenti) come nelle auto da corsa, che andava a controbilanciare la massa dei propulsori. La bilancia si fermava comunque a quota 10.500 kg, che non impedivano però prestazioni da urlo: 220 km7h di velocità massima su sabbia che diventavano 240 su km/h su altri terreni, oltre ad un’accelerazione da 0 a 100 km/h in 7,8 s! Cerchi in lega da 24″ e una cabina ridisegnata (tranne che per la portiera con portasigarette, come meglio si addice al tradizionale camionista) completavano il pacchetto del DAF 95 TurboTwin.

Due esemplari gemelli furono prodotti: l’X1 col n°600 fu affidato a De Rooy stesso con il copilota Yvo Geusens e il meccanico Hugo Duisters, mentre l’X2 col n°601 fu portato in gara dal trio Theo van de Rijt (pilota), Kees von Loevezijn (copilota) e Chris Ross (meccanico). La Parigi-Dakar 1988 non poteva partire meglio, con l’X1 che all’8^ tappa era 3° assoluto, davanti addirittura alle due Peugeot 405 T16 Grand Raid ufficiali. Come anticipato all’inizio, l’emblema di questa superiorità, rimasto tutt’ora impresso nella memoria degli Appassionati, è la scena del testa a testa in mezzo al deserto tra l’X1 e la 405 di Vatanen, con il camion di De Rooy che riesce nel sorpasso: leggenda vuole che il pilota finnico abbia violentemente picchiato il pugno sul volante nel vedere l’imponente bestia a quattro ruote sfrecciargli sotto il naso…

Purtroppo il sogno e la felicità finirono lì. Proprio nel corso dell’8^ tappa l’X2, accelerando su una difficile zona sabbiosa, si ribaltò ad alta velocità (si dice 180 km/h) per poi rotolare almeno 6 volte. Il sedile di Kees von Loevezijn fu letteralmente sradicato dalla forza centrifuga, sbalzando così l’olandese al di fuori dell’abitacolo e portandolo tristemente incontro alla morte. Gli altri due occupanti, malgrado una cabina completamente disintegrata, si salvarono riportando comunque infortuni molto seri.
Il team dell’X1 non poté che ritirarsi dalla manifestazione di fronte ad una così grande sciagura, con DAF che lasciò il mondo delle corse per diversi anni a venire. Anche De Rooy non partecipò alla Dakar fino al 2002. La manifestazione stessa ne fu profondamente colpita, con il divieto alla partecipazione dei camion per il 1989 e l’imposizione dal 1990 di una velocità massima di 150 km/h per i mezzi pesanti.

L’X2 giace tutt’ora nel deserto del Ténéré, lì dove la sua corsa è stata spezzata dalla sorte. Il suo gemello X1 si trova invece al museo DAF di Eindhoven, tenuto in perfette condizioni di marcia e talvolta guidato in esibizioni dal figlio di Jan De Rooy, Gerard: qui Appassionati e curiosi possono rivivere coi ricordi una delle più esaltanti epoche motoristiche di sempre, fatta di Gruppi B e prestazioni oltre i limiti, anche grazie ad un “impensabile” camion diesel.

I mezzi pesanti e i loro motori a gasolio non hanno finito di stupirci! Nel prossimo appuntamento un altro peso massimo, questa volta tutto italiano, percorrerà le strade della Parigi-Dakar con un obiettivo ben fisso in mente: scoprite quale qui, con #RacingFuels!
Qui sotto puoi gustarti la galleria di immagini sul DAF 95 TurboTwin.
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– la Squadra Storie SCL

#RacingFuels – L’avvento del turbodiesel

12/08/2017

Caro amico di SCL bentornato a #RacingFuels, la rubrica di Sports Car Legends sui vari carburanti e motori nel mondo delle corse. Come anticipato nella scorsa puntata, prima di passare a mezzi più “massicci” vogliamo oggi proseguire il racconto di una delle case automobilistiche storicamente più impegnate sul fronte diesel, ovvero i francesi di Peugeot.
Abbiamo scoperto come, per motivi prettamente pubblicitari, a partire dagli anni ’20 siano stati condotti test di consumo. La storia della Peugeot 404 Diesel è entrata nei record negli anni ’60. Ora è la volta finalmente delle vere e proprie competizioni, quelle che scaldano il cuore degli Appassionati come noi.

Dopo circa 11 anni di onorata carriera, la Peugeot 504 iniziò a risentire dell’età. Non certamente dal punto di vista meccanico, essendone proverbiali la solidità e l’affidabilità che ne hanno fatto la regina d’Africa e non solo.
Con la supervisione stilistica della carrozzeria Bertone, partner di lungo corso dei francesi di Sochaux, nacque quindi la 505. Meccanicamente non molto distante dalla 504, sia per impostazione tecnica che per componenti (il pianale era in comune), la nuova nata vedeva ulteriori miglioramenti sotto l’aspetto dell’eleganza e del comfort. Classificabile perciò come grande berlina da viaggio, difficilmente vedendola sulle strade transalpine e del resto d’Europa si sarebbe potuto pensare ad una sua carriera sportiva.

Nelle sue versioni stradali difficilmente incontrava i gusti degli automobilisti africani, con anche i piloti impegnati nei rally raid che le preferivano la pur vecchia 504 V6, la cui principale erede sarebbe poi stata la 205 T16. Il peso e le dimensioni maggiori rispetto alla progenitrice non pendevano a favore della 505 che, relativamente all’ambito rallystico, ottenne nel 1981 il suo miglior risultato al 25° International ADAC-Rallye Tour d’Europe. Con la coppia formata da Holger Bohne e Peter Diekmann e i colori del team Peugeot Talbot Sport Deutschland, giunse davanti alla Toyota Corolla dei favoriti Klaus Fritzinger e Henning Wünsch.
Il reparto corse di Sochaux ebbe però un’idea altamente innovativa che riuscirà a iscrivere l’auto nelle pagine della storia dell’automobilismo, mettendo a punto una versione della corsa della 505 SRDT 2.3, vettura dotata di motore turbodiesel.
Il turbo apparve sulle strade per la prima volta accoppiato al motore diesel nel 1979, con la produzione della Peugeot 604. Nonostante quindi lo sviluppo così recente di tale tecnologia, all’alba degli anni ‘80 la 505 a gasolio vide la luce.
Dimensioni e pesi non subirono stravolgimenti, con una lunghezza di 4.579 mm, una larghezza di 1.740 mm, un passo di 2.743 mm e una massa a vuoto di 1.285 kg, che salivano a 1355 kg in ordine di marcia. Freni anteriori a disco e posteriori a tamburo, cambio manuale a 5 marce e sospensioni di serie (MacPherson all’anteriore e bracci oscillanti al posteriore) con molle elicoidali completavano il pacchetto meccanico di base: tutto era evidentemente molto vicino alla versione normalmente in vendita nei concessionari, come prevedeva il regolamento Gruppo 1 a cui aderiva. Come detto però la parte interessante stava sotto al cofano: qui alloggiava infatti un motore a gasolio 4 cilindri in linea da 2.304 cc (equivalenti a 3226 in virtù del coefficiente di sovralimentazione imposto dalla FISA) che, dotato di un sistema di iniezione del carburante Bosch di tipo meccanico e di un turbocompressore Garrett TA 0302, erogava 150 CV a 4150 giri/min e una coppia massima di 245 Nm a 2000 giri/min.

Il debutto avvenne al Rallye Automobile de Monte-Carlo del 1981, con la vettura n°39 della coppia Claude Laurent / Jacques Marché. Curioso notare il legame del rally più prestigioso al mondo con il gasolio, essendo stato la cornice per il debutto rallystico assoluto del diesel nel 1931 con la Gardner Bentley e ora dell’avvento del turbodiesel. La 505 dominò la classe diesel, portando a casa un buon 39° posto assoluto. 
La stagione 1981 del Mondiale Rally vide altre partecipazioni della 505 SRDT. Laurent,  sempre in coppia con Marché, ottenne nel corso dell’anno diversi risultati di assoluto rilievo: il 20° posto al Tour de Corse e il 15° al Rallye Sanremo sarebbero già prestazioni da incorniciare, soprattutto in virtù della quantità e della qualità degli iscritti al Campionato del Mondo Rally di quegli anni.
Ma il risultato più sensazionale arrivò al 28° Acropolis Rally, una delle gare più massacranti del panorama rallystico internazionale, dove i francesi chiusero la corsa addirittura al 10° posto assoluto. Questo risultato si rivelerà storico, rimanendo ad oggi il miglior piazzamento di una vettura diesel nel Campionato del Mondo Rally!
Nel 1982 la coppia Claude Laurent / Dominique Laurent si piazzò 21^ al Tour de Corse, ma la nostra attenzione si sposta in Italia, grazie a Giovanni “Gianni” Del Zoppo e alla sua copilota Elisabetta “Betty” Tognana.  Il pilota comasco, all’epoca una delle giovani promesse dei rally italiani, si mise in mostra al volante di una 505 SRDT iscritta dalla filiale italiana di Peugeot. I risultati furono di assoluto rilievo e spesso Del Zoppo lottò per le posizioni di testa tra le vetture di Gruppo A. Grazie a diversi piazzamenti a podio ottenuti durante l’anno, a fine stagione l’alfiere Peugeot riuscì a guadagnare la 3^ posizione nella classifica piloti di auto Gruppo A, preceduto solamente da Carlo Capone, 1° con la Fiat Ritmo Abarth 125 TC del Jolly Club, e da Amedeo Gerbino, velocissimo al volante della sua Opel Kadett GT/E.
Il punto più alto dell’intera avventura italiana della 505 SRDT ci fu tuttavia in occasione del 24° Rallye Sanremo, dove Peugeot iscrisse ben due vetture: “Gianni” Del Zoppo e “Betty” Tognana conclusero al 14° posto assoluto, primeggiando sorprendentemente tra le auto di Gruppo A davanti proprio ai loro compagni di squadra Leo Pittoni e Lucia Dominoni, al 16° posto. 

L’avvento del Gruppo B e dei notevoli investimenti fatti da Peugeot per la 205 T16 sicuramente incise nel mancato sviluppo della tecnologia turbodiesel della 505, che in ogni caso proseguì la sua carriera sportiva spinta da motori sovralimentati a benzina, sia a livello ufficiale in pista che privato nei rally. Ma i risultati di questa evoluzione del propulsore diesel non passarono inosservati, rivelandosi decisivi in altri mezzi di cui approfondiremo la storia la prossima nel prossimo appuntamento con #RacingFuels. Non mancare!
Non perderti qui sotto le foto esclusive e il fantastico video della Peugeot 505 SRDT del nostro amico Yves Den Doelder, che ringraziamo ancora una volta per avercene concesso la pubblicazione.
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– la Squadra Storie SCL

#RacingFuels – Le auto da record

05/08/2017

Rieccoci ad un nuovo appuntamento con #RacingFuels e l’avvincente storia dei carburanti alternativi alla benzina nelle competizioni.
Come abbiamo visto nella scorsa puntata, gli anni ’50 hanno visto i propulsori diesel impegnati in gare prestigiose. I risultati sono stati altalenanti, ma di sicuro l’impatto sul pubblico è stato notevole, come dimostrano le vendite della Mercedes-Benz 180D. Le case automobilistiche, complice il prezzo crescente della benzina che culminerà con la crisi petrolifera degli anni ’70, vedono quindi la possibilità di commercializzare auto a gasolio sfruttando i loro ridotti consumi.
Oltre alla gare, quale altro mezzo pubblicitario può diffondere questa idea nei consumatori se non record di consumi e prestazioni? Ecco quindi una sempre maggiore e serrata competizione fra marchi, con lo scopo di stabilire la propria superiorità tecnica. Cominciamo!

Già ad inizio secolo Peugeot si era cimentata in prove alla stampa sulla bontà dei propri motori diesel. Negli anni ’60, quando la sua leadership nel campo era ormai un dato di fatto, la casa francese porta questi test all’estremo, non più utilizzando auto di serie ma con vetture talmente ottimizzate da sembrare prototipi: così facendo poté dimostrare i limiti più estremi della tecnologia e al contempo compiere anche qualche passo in avanti tramite uno studio mirato.
Nasce quindi la Peugeot 404 Diesel: derivata dalla versione cabriolet della 404 normalmente in vendita, viene modificata dalle officine La Garanne in modo da avere un solo posto, riservato al pilota, carenato da un parabrezza molto inclinato e da un tettuccio spiovente, così da avere la massima penetrazione aerodinamica. Il corpo vettura, lungo 4500 mm e largo 1620 mm, viene poi dotato di altre accortezze, quali fari supplementari, incorporati nel frontale, un cofano senza cerniere perfettamente liscio e un tappo del serbatoio di tipo corsaiolo.
Scese in pista una prima volta sul circuito di Montlhery il 4 Giugno 1965 con un motore da 2.163 cc: con 5 piloti susseguitisi al volante, percorse 5.000 km in poco meno di 31 ore mantenendo una velocità di 160 km/h. Grazie a questa prestazione furono ben 22 i record di classe E che la vettura francese si portò a casa.
Non ancora soddisfatti, i tecnici Peugeot montarono sulla 404 un nuovo motore, un Indenor XD88 da 1.948 cc di cilindrata e 68 CV di potenza. Con questa nuova configurazione, la vettura iniziò a girare l’11 Giugno 1965, sempre sul circuito di Montlhery, riuscendo a coprire 11.000 km in 72 ore a 161,49 km/h di media. Altri 18 record di classe D vennero stabiliti, consegnando la 404 Diesel alla storia e al meritato riposo al Musée de l’Aventure Peugeot di Sochaux, dove ancora oggi è conservata.

Qualche anno dopo anche Opel produsse il suo prototipo: partendo dalla sportiva GT, i tecnici di Rüsselsheim lavorarono sulla riduzione di peso e sull’aerodinamica. Molte soluzioni adottate dai francesi anni prima furono riprese e sviluppate, trasformando così la coupè di ispirazione Corvette in una monoposto dalle forme simili alla 404. Equipaggiata dal propulsore a gasolio della Rekord, il 4 cilindri da 2.068 cc venne potenziato tramite un compressore che portò i cavalli erogati da 60 a 95. Con queste credenziali prese quindi vita la Opel GT Diesel Rekordwagen.
Il 1° Giugno 1972 un corposo team composto da Marie-Claude Beaumont, Henri Greder, Paul Frère, Jochen Springer, Giorgio Pianta e Sylvia Österberg partì sul circuito privato Opel di Dudenhofen. In poco più di 52 ore percorsero 10.000 km ad una velocità media di 190,88 km/h, oltre ad ottenere una punta di 197,5 km/h sul chilometro da fermo: questo permise di stabilire 18 primati per la classe dai 2 l ai 3 l di cubatura.

Una delle case che con Peugeot è stata pioniera nello sviluppo dei motori a gasolio, ovvero la Mercedes-Benz, non stette di certo a guardare. Verso la fine del decennio la casa della stella aveva preparato un prototipo con cui effettuare vari studi su motori sperimentali, come il Wankel: si tratta della C111-III, che si può tranquillamente definire un’auto da drag race.
Un passo lungo (2.720 mm), la larghezza contenuta (1.260 mm all’anteriore e 1.320 mm al posteriore) e ruote carenate sono solo alcune delle accortezze che il capo progetto  Prof. Hans Scherenberg adottò per permettere una facile e veloce percorrenza in linea retta senza interferenze dalle correnti laterali. Tutto ciò portò ad un Cx di 0,183. Anche all’interno tutto era ottimizzato: l’abitacolo monoposto presentava una sofisticata telemetria appositamente progettata, oltre naturalmente da un impianto per la comunicazione radio tra pilota e tecnici. Caratteristico era un largo condotto per portare aria dalle prese d’aria all’anteriore all’intercooler posto al retrotreno. Il motore era infatti turbo, per la precisione un 5 cilindri in linea OM 617A da 2.999 cc che grazie a sovralimentazione e turbo Garret sviluppava 230 CV tra 4.200 giri/min e 4.600 giri/min. Il cambio era un manuale a 5 marce dai rapporti molto lunghi.
Il 30 Aprile 1978 la vettura iniziò il suo test sul famoso circuito ovale di Nardò. La prova non fu esente da inconvenienti: il primo, alquanto curioso, vide protagonista un porcospino che fu celermente tolto dalla pista poco prima del transito della C111-III; il secondo, ben più pericoloso, fu lo scoppio dello pneumatico posteriore destro durante la notte. Questo portò al ferimento del pilota e a corposi danni alla carrozzeria, tanto da costringere a passare alla vettura di riserva, completamente uguale, oltre ad azzerare gli orologi e a ricominciare da capo il tentativo di record. La vettura di riserva si dimostrò anche più performante di quella originale, riuscendo a migliorarne le prestazioni, sia di consumo che di velocità, ottenute prima dell’incidente. Ancora una volta un porcospino si intromise, ma fu meno fortunato del suo predecessore e colpì l’auto danneggiando lo spoiler anteriore. Fortunatamente per il team, la riparazione richiedette il tempo di un pit stop per rifornimento e cambio pilota, non incidendo sul test.
Dopo 12 ore di sessione, 9 record di classe furono stabiliti: notevoli il consumo di soli 16 l / 100 km e la velocità media 316 km/h e una massima di 322 km/h.

Due anni più tardi, nel 1980, un’altra casa tedesca batté questa già impressionante velocità: la Volkswagen progettò e produsse il suo prototipo, la ARVW (Aerodynamic Research Volkswagen).
L’aerodinamica era spinta all’estremo, essendo lo scopo principale dei tecnici di Wolfsburg quello di studiare il consumo di carburante ad alte velocità. Innovativo il corpo vettura in alluminio e materiali compositi. Il motore diesel 6 cilindri da 2.4 l derivava da un camion e dopo le necessarie modifiche erogava 175 CV.
Nel 1980, sempre a Nardò, la vettura tedesca ottenne la velocità massima record di 362,07 km/h.

Se i prototipi macinavano record stratosferici, anche le auto stradali del tempo non erano da meno. La crisi petrolifera del 1979 spinse anche Alfa Romeo, fin lì tradizionalista, ad adottare motori diesel sviluppati da un’altra azienda italiana, la VM Motori.
Nel 1982, ancora una volta sul circuito di Nardò, un’Alfetta TD e una Giulietta TD, equipaggiate con un turbodiesel di 2000 cc, stabilirono 7 record mondiali di velocità sulle distanze di 5/10/25/50 mila km e 5/10/25 mila miglia.

Abbiamo quindi visto come le auto, prototipi o di serie, abbiamo raggiunto ormai prestazioni interessanti sia per le gare che per gli automobilisti. L’evoluzione del diesel però passerà, nel corso degli anni ’80, attraverso mezzi di trasporto più grandi e pesanti. Ma prima Peugeot avrà ancora qualcosa da dire nei rally mondiali… L’appuntamento è sempre qui a #RacingFuels, solo su Sports Car Legends!
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– la Squadra Storie SCL

#RacingFuels – Tra la Sarthe e Brescia

29/07/2017

Al termine della scorsa puntata ci eravamo lasciati alle soglie del secondo conflitto mondiale. Come tutti gli aspetti della vita, anche il progresso tecnologico e, a maggior ragione, le competizioni automobilistiche rimangono cristallizzati durante eventi di questo terribile genere. Ciò significa che i motori diesel arrestarono il loro incedere verso una condizione pari ai propulsori a benzina, tornando ad essere considerati più buoni per il lavoro che per lo sport. Nel 1949 ecco però la nuova svolta, per di più non su un terreno facile: l’epica, mitica, esaltante 24 Ore di Le Mans, tornata per la prima volta dopo la guerra. Da qui riprende il viaggio della rubrica #RacingFuels.

La gara di durata più famosa al mondo stava ancora muovendo i primi passi, in una fase pionieristica che ne definirà l’attuale fascino. Proprio questo spirito di innovazione e avventura mosse due fratelli francesi, Jean e Jacques Delettrez. Provenienti da Parigi e figli di un distributore UNIC, ebbero l’intuizione di puntare non sulle prestazioni ma sull’affidabilità e sulla parsimonia nei consumi, caratteristiche altrettanto importanti in una gara di durata. Come ben sappiamo dalla storia della Cummins Diesel e dalle prime avventure in Europa, i motori a gasolio del tempo avevano in queste due componenti la loro vera forza, perché quindi non sfruttarla appieno?

La vettura che prepararono per l’occasione fu un compendio di parti dalla diversa origine. Innanzitutto il telaio, proveniente da un modello d’anteguerra della casa francese UNIC, famosa non solo per l’affidabilità delle sue automobili ma anche per i successi sportivi, conquistati agli albori della storia societaria (nel dopoguerra si occupò infatti di veicoli pesanti). Su tale base venne adattata la carrozzeria di una Delage V12, anch’essa proveniente quindi da una casa transalpina rinomata per lo sport e il lusso. Il cambio fu invece un Cotal. Infine la parte più importante, il motore diesel, un GMC 6 cilindri da 4395 cc di derivazione militare, in pratica un residuato bellico statunitense.

Con Jacques al volante e il numero 5 sulla carrozzeria blu, i due fratelli percorsero 123 giri del Circuit de la Sarthe, equivalenti a 1660 km, prima di incorrere in un problema: quello che doveva essere un punto di forza della loro vettura, i bassi consumi del motore, fu invece causa di rovina.
Il carburante si esaurì all’improvviso, per cui Jacques uso il motore di avviamento come spinta propulsiva di fortuna per raggiungere i box e tornare in gara dopo il pieno. Purtroppo la batteria risentì di questo uso improprio e si scaricò completamente, impedendo così la riaccensione del propulsore.

Fortunatamente, come i migliori pionieri, il duo transalpino non si lasciò scoraggiare da questo debutto sfortunato, tornado a Le Mans nel 1950 con la stessa auto (stavolta col numero di gara 10). Curioso come lo stesso motorino di avviamento causò un altro inconveniente: acceso per sbaglio mentre il motore principale era in funzione, esplose e costrinse nuovamente i Delettrez al ritiro.
Jean e Jacques, con il loro esperimento del 1949, ebbero anche il merito di ispirare altri ad affidarsi al diesel. Stiamo parlando della compagnia Manufacture d’Armes de Paris e della loro innovativa vettura, chiamata M.A.P.. Per l’epoca era veramente innovativa: il motore a gasolio, 5.0 l e 4 cilindri sovralimentato, presentava un’architettura a 2 tempi con cilindri contrapposti, collegati ad un unico albero a gomiti tramite leve. Non solo, la struttura con propulsore montato in posizione centrale era davvero all’avanguardia per i tempi, oggi invece è ampiamente impiegata nelle auto da competizione. L’equipaggio era di prim’ordine, con Pierre Veyron al volante e Francois Lacour ad accompagnarlo. Forse l’innovazione era troppa e a pagarne le conseguenze fu l’affidabilità, visto che un problema al sistema di raffreddamento (nello specifico un radiatore bucato) causò il ritiro della M.A.P. n°1 dopo 526 km.

Come dice il detto non c’è due senza tre, infatti Jean e Jacques Delettrez ci riprovarono anche nel 1951. La loro vettura n°12 fece registrare un miglior tempo sul giro di circa 2 minuti più lento della Jaguar XK120C poi vincitrice, ma nonostante questo dopo 24 giri le valvole cedettero e collezionò l’ennesimo ritiro. Le prestazioni blande e l’evidente inaffidabilità meccanica non incoraggiarono altri ad affidarsi al gasolio alla 24 Ore. Bisognerà infatti aspettare il 2004, quando la Taurus Sports Racing scese in gara con una Lola B2K/10-Caterpillar, spinta dal motore V10 TDI derivato da una Volkswagen Touareg.

Se quindi in terra francese il discorso fu momentaneamente archiviato, in Italia il motore diesel brillò in un’altra affascinate e gloriosa competizione, la Mille Miglia. L’edizione del 1955 viene ricordata per il successo della coppia Stirling Moss – Denis Jenkinson a bordo della Mercedes-Benz 300 SLR n°722, ma la casa della stella ebbe anche un altro motivo per festeggiare. Infatti, nella appena introdotta categorie per auto a gasolio, si distinse la Mercedes-Benz 180D. Al via se ne presentarono ben 6 esemplari, arrivati a Brescia compito di sfidare le 5 FIAT 1400D padrone di casa. L’auto tedesca era forte di tecnologia al passo coi tempi, con carrozzeria di tipo Ponton e motore a gasolio da 1.767 cc di cilindrata e 40 CV di potenza.

I due piloti tedeschi Helmut Retter (pilota) e Walter Lacher (navigatore) chiesero di loro iniziativa di partecipare alla gara, affiancando le 5 180D che il direttore del reparto corse Alfred Neubauer aveva inizialmente pensato di far correre. Superati i forti dubbi di quest’ultimo, Lacher e Retter partirono: lo scetticismo e i preconcetti dell’ambiente delle corse nei confronti del gasolio si trasformarono presto in risate e sberleffi, uno su tutti quello di far partire con ore di anticipo le auto a gasolio affinché non ostacolassero le altre, ben più performanti. In effetti la 180D col n°04 mise alla prova il pilota, quando il suo peso divenne difficile da gestire lungo i tornati di Umbria e Toscana.

I risultati furono però sorprendenti: il tempo finale di 16 h 52 min 25 s, a sole 7 h circa da quello del vincitore Moss e della sua vettura ad alte prestazioni (basti solo pensare al motore di derivazione F1); anche la velocità media di 94,645 km/h stupì, viste le prestazioni più modeste registrate fino a qualche anno prima. Il successo si rifletté anche sulle vendite, con la Mercedes-Benz 180D che vendette 153.000 unità fino all’uscita di produzione datata 1962, rendendola la versione di maggior successo della serie 180.

Abbiamo visto come l’evoluzione del diesel nelle competizioni sia passata, nel dopoguerra, attraverso gare iconiche, suscitando emozioni nel cuore del pubblico ma senza ricavare risultati storici. Negli anni a venire le auto a gasolio stabiliranno invece primati destinati a farle diventare sempre più apprezzate: stiamo parlando delle auto da record, che tratteremo nella prossima puntata di #RacingFuels!
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– la Squadra Storie SCL

#RacingFuels – Il diesel sbarca in Europa

22/07/2017

L’uso dei motori gasolio nelle competizioni di durata non sarà di certo stata una rivelazione per voi Appassionati. Al massimo potrebbe avervi colpito la precocità del debutto della Cummins Diesel, risalente addirittura agli anni ’30.
Se in quegli anni negli USA se ne stavano scoprendo le potenzialità, in Europa si era ancora refrattari alla creazione di Rudolf Diesel nelle gare: scopriamo insieme come sono cambiate i giudizi in questo nuovo capitolo di #RacingFuels.

In un primo momento nel Vecchio Continente ci si concentrò sul dimostrare i vantaggi dei veicoli a gasolio in termine di consumi, con Peugeot fu una delle prime case ad organizzare un test per la stampa nel 1923. Furono utilizzate due auto, una con motore diesel di tipo Tartrais a 2 tempi, 2 cilindri da 100 x 140 mm e cilindrata di 2199 cc, l’altra con propulsore a benzina 4 cilindri da 85 x 130 mm e cubatura di 2590 cc. Identiche sotto ogni altro aspetto, dal telaio alla rapportatura del cambio fino alla misura degli pneumatici, le due vetture seguirono lo stesso percorso di 166 km: quella a gasolio totalizzò un consumo di circa 14 km/l contro gli 8 km/l di quella a benzina. Quest’ultima ebbe comunque la meglio nel test di velocità sul chilometro, con un risultato di 73 km/h contro 60 km/h.
Anche una Mercedes-Benz 170D a gasolio da 38 CV fu testata in presenza di giornalisti, con consumi tra i 19 e i 26 km/l in base all’andatura.

Questi test sembravano confermare il pensiero predominante, ovvero che i veicoli con motore diesel fossero più che altro destinati a scopi commerciali, dove i consumi ridotti sono più importanti delle prestazioni velocistiche. A intaccare questa convinzione ci pensò una nostra vecchia conoscenza, la Cummins Diesel reduce dalla Indy 500 del 1931.
Dopo il successo del tour europeo post 500 Miglia, nel 1932 Clessie Cummins portò la sua creatura in Inghilterra, precisamente al circuito di Brooklands. Inaugurato nel 1907, questo ovale divenne ben presto un punto di riferimento nelle gare di velocità e di durata. Grazie a questa cassa di risonanza, la velocità sul giro di oltre 120 km/h stabilita dalla vettura americana scosse l’opinione pubblica e ispirò altri nel credere alle potenzialità del diesel.

Tra questi ci fu un nobiluomo inglese, Lord Howard de Clifford: equipaggiò una Bentley 3 litri del 1925 completamente di serie con un propulsore Gardner 4LW da 5.5 l, 4 cilindri e 68 CV a 1700 giri/min, partecipando addirittura al Rally di Monte Carlo, già ai tempi tra le più conosciute e prestigiose gare al mondo. Iscritto col numero 46, sdoganò definitivamente in Europa il gasolio nelle competizioni con un roboante 5° posto assoluto, 1° tra le vetture britanniche.
Tale risultato spinse la Gardner, azienda specializzata nel motorizzare navi e veicoli commerciali, a continuare lo sviluppo del suo propulsore. Purtroppo non fece ritorno ai rally, con all’attivo solamente un test nel 1935 con una Lagonda 2 l di serie: 18-20 km/l , 0-100 in 24,4 s e velocità massima di poco oltre i 130 km/h i risultati, ottenuti grazie ai suoi 83 CV

L’onda del successo di Lord de Clifford spinse invece molti a cimentarsi in record di velocità, a Brooklands e non solo. Innanzitutto George Eyston, nel 1933 con un motore AEC 9 l derivato da un autobus e montato su un telaio Chrysler: con una sbalorditiva velocità di 172 km/h sul bagnato “costrinse” la FIA a creare una classe specifica per i diesel, ormai abbastanza competitivi da essere degnamente considerati. Eyston si presentò anche a Pendine Sands con la stessa auto ma equipaggiata da un motore diesel “Ricardo”, abbattendo i record del circuito. A Montlhery riuscì a girare per 3 ore a 158 km/h, con punta di quasi 166 km/h, stabilendo molti record di classe, poi persi e riconquistati più volte fino al 1937: un’ora a 170 km/h, 12 ore e 24 ore a 156 km/h. Il suo capolavoro fu però la vettura soprannominata “Flying Spray”, che raggiunse addirittura i 256 km/h prima del 1939.
R. J. Munday si affidò a un motore sovralimentato di cubatura più modesta: un Perkins da 2.7 l, con 4 cilindri da 85 x 120,6 mm che dotato di compressore Zoller raggiungeva 65 CV invece degli originali 45 CV. Questo propulsore, soprannominato “Wolf”, spinse una Hillman Thomas Special a 152 km/h sul chilometro ripetuto.
Anche i francesi di Citroën, da sempre molto attenti alle innovazioni, si cimentarono col diesel: con una Yacco Special equipaggiata da motore Ricardo da 1.8 l vollero dimostrare di poter ottenere prestazioni elevate con bassi consumi, riuscendo a stabilendo il record di durata con 8 giorni a 110 km/h.

Ormai alle soglie della Seconda Guerra Mondiale, i motori a gasolio si difendevano molto bene dai rivali a benzina nelle prestazioni, superandoli nei consumi. Basti pensare a quelli derivati dalla serie: un Perkins Panther da 4.7 l e 6 cilindri sviluppava 85 CV a soli 2000 giri, rendendolo migliore in termini di peso per litro del contemporaneo Ford V8 30, migliore però nel rapporto cavalli-litro.
Il conflitto fermò però lo sviluppo tecnologico e il divario di prezzo fra benzina e gasolio si era nel frattempo quasi azzerato: i privati persero via via interesse nei motori diesel, causando di riflesso un accantonamento nelle competizioni.

Da quanto raccontato sembrerebbe che l’epoca della creatura di Rudolf Diesel in Europa fosse al tramonto. Vedremo però come ancora tante e prestigiose pagine di Storia sportiva sarebbero state scritte, ad esempio sul Circuit de la Sarthe… L’appuntamento è sempre qui a #RacingFuels, solo su Sports Car Legends!
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#CiakSiCorre – Veloce come il vento

19/07/2017

Dopo aver narrato le gesta degli “attori al volante” d’America, in questa nuova puntata la rubrica #CiakSiCorre ci riporta a casa, in Italia, con un esempio tutto nostrano.
Il protagonista di oggi è Stefano Accorsi: fresco vincitore del David di Donatello, prestigioso premio cinematografico, l’attore ha iniziato il suo legame col mondo delle competizioni sul set di “Veloce come il vento”. In questa pellicola, che gli è valsa proprio la statuetta, interpreta Loris de Martino, ex-pilota di rally che aiuta la sorella nella carriera in pista. Accorsi ha avuta la fortuna di guidare una Peugeot 205 T16 Evo 2, recapitata direttamente da Sochaux con tanto di meccanici specializzati, per non parlare dell’avere come mentore un certo Paolo Andreucci, 9 volte Campione Italiano Rally.

Inizia così il rapporto di Accorsi con Peugeot Italia, che non solo lo fa suo ambasciatore e testimonial in numerosi spot pubblicitari, ma gli offre anche un’opportunità più unica che rara: gareggiare con una Peugeot 308 Racing Cup del team Arduini Corse nel campionato TCR Italy. Si tratta della “sorella da corsa” della 308 GTi, berlina sportiva della casa del leone.
Motore 4 cilindri 1.6 turbo da 272 cv a 6.000 giri e coppia di 330 Nm a 1.900 giri, 1280 kg che significano un rapporto peso/potenza di 4,46 kg/cv, 0-100 km/h in 6,0 s e 250 km/h di velocità massima, 1000 m con partenza da fermo in 25,3 s: le credenziali della versione stradale sono già di per sè accattivanti. Seguendo però i dettami del regolamento TCR, Peugeot Italia ha trasformato questa sportiva da tutti i giorni in una vera e propria belva!
All’esterno subito si notano le carreggiate allargate di 110 mm fino a quota 1910 mm, oltre al grande alettone posteriore regolabile manualmente. Dentro si vedono invece i risultati della cura dimagrante a cui è stata sottoposta: via sedili, rivestimenti e ammennicoli vari (clima, infotainment, etc.), al loro posto roll bar multipoint saldato, sedile da corsa Recaro (può esserne aggiunto uno per il passeggero) e volante da corsa in Alcantara con strumentazione digitale. I 1100 kg risultanti beneficiano poi di un trattamento meccanico di lusso.
Innanzitutto il 1.6 THP si arricchisce della turbina della Peugeot 208 T16 R5 di Paolo Andreucci, raggiungendo grazie alle dovute modifiche  308 cv. La trasmissione è garantita dal cambio sequenziale SADEV a 6 rapporti con paddle al volante, dalla frizione a disco singolo e dal differenziale autobloccante Torsen. Completano il pacchetto gomme slick  su cerchi da 18 pollici e impianto frenante Brembo privo di ABS e servofreno. La pregevolezza del trattamento di Peugeot Sport giustifica il prezzo finale di 74.900 €. Se vuoi scoprire altro su questa vettura non ti resta che aspettare la nostra scheda tecnica completa, presto online qui sul sito.

L’attore bolognese, che ha confessato di essere Appassionato di auto e motori in genere fin da adolescente, si è quindi sottoposto ad una preparazione specifica molto intensa, anche stavolta con un tutor d’eccezione: Massimo Arduini, 4 volte vincitore del Campionato Italiano Turismo. Innanzitutto ha dichiarato di aver dovuto cambiare stile di guida, da uno improntato alla conservazione di meccanica e consumi, proprio del classico automobilista, a uno più estremo e aggressivo, votato alla ricerca della prestazione. Dopo aver ottenuto la licenza nazionale di tipo C, per affinare la tecnica ha svolto quindi diverse sessioni di prova sul circuito Tazio Nuvolari di Pavia, riuscendo ad arrivare a circa 2 secondi dai tempi registrati da Arduini. Questo ottimo preludio è stato confermato nella gara di apertura della stagione, ad Adria lo scorso 7 Maggio.

In una corsa condizionata dal maltempo (addirittura alcuni minuti di sospensione), Accorsi è stato capace di conquistare il 3° posto in gara 1 nella categoria TCT (12° posto assoluto). Al termine si è detto chiaramente molto soddisfatto, oltre ovviamente per il piazzamento anche per aver terminato la corsa nonostante la pioggia, difficile da gestire a maggior ragione per un neofita. Infatti la pista molto bagnata ha reso praticamente inutile il set up preparato nei giorni precedenti, costringendolo a guidare “alla cieca” più che la scarsa visibilità sul circuito. Accorsi ha vissuto l’esperienza più con passione e divertimento che con ansia da prestazione, ricordando come anche nel cinema vi sia sempre una parte di imprevedibilità a cui far fronte.

Per lui sono previste altre tappe del TCR Italy, alternandosi con Arduini e forse con Andreucci: la manifestazione comprende 7 gare in totale, toccando i circuiti di Adria, Misano, Monza (2 volte), Mugello Imola e Vallelunga. Ciascun appuntamento è composto da 2 turni di qualifica di 15 minuti e da 2 manche di gara, gara 1 e gara 2, entrambe della durata di 25 minuti più 1 giro. Non resta da vedere come si comporterà il team Peugeot contro i tanti rivali, che possono contare su vetture marchiate Abarth, Alfa Romeo, Honda e SEAT.

#CiakSiCorre ha raggiunto lo scopo che ci eravamo prefissati, regalarti 4 storie imperdibili di Passione per l’automobilismo che trascende il grande schermo. Ma è adesso che entri in gioco tu, amico di Sports Car Legends! Infatti potrai suggerirci altri attori di cui vuoi conoscere le avventure nell’automobilismo sportivo: a tua disposizione i nostri canali che troverai nella pagina Contatti. 😉 
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#CiakSiCorre – Old Blue Eyes

11/07/2017

Anni ’60 e ’70. Tra i tanti divi di Hollywood due in particolare attiravano gli occhi delle fan: Steve McQuenn, il ribelle dall’animo tormentato, e Paul Newman, l’uomo dagli occhi color mare. Oltre alle attenzioni delle signore, questi due pilastri del cinema condividevano anche una grande Passione, l’automobilismo. Conosciamo la sua storia al volante qui, a #CiakSiCorre .

Se McQueen coltivava il suo amore per i motori fin dall’adolescenza e lo portò anche sui set cinematografici, Newman scoprì questo mondo solo nel 1965, a 40 anni, vivendolo più che altro sui circuiti di svariate competizioni ufficiali. Il primo approccio al Motorsport lo ebbe con il suo Maggiolino modificato: motore della Porsche 356, barre antirollio, sospensioni Koni e pneumatici Dunlop trasformarono la piccola Volkswagen in un prestante mezzo per divertirsi sulla pista californiana di Willow Springs. La Ford colse al volo questo interesse del divo cinematografico e nel 1967 il suo nome venne usato per sponsorizzare una Holman & Moody Honker II, guidata dal pilota statunitense Mario Andretti nella tappa di Bridgehampton del campionato Can-Am.
Quello che sembrava solamente un passatempo, nel 1968 si trasformò nell’idea di diventare pilota. Sfruttando le riprese del film “Indianapolis pista infernale”, Newman frequentò dei corsi di guida tenuti dal noto pilota Bob Bondurant, ottenendo 4 anni più tardi la licenza per correre. In quel periodo dichiarò « Sono stato un cattivo pugile, un deludente giocatore di football americano, di tennis, di badminton, un pessimo sciatore. Non ho mai avuto il dono della grazia nello sport. Poi un giorno mi son detto: “Sta’ a vedere che invece sono un decente pilota…” ». Gli anni a venire avrebbero dimostrato che Old Blue Eyes ci aveva visto giusto.

Nel 1972 corse nel Campionato organizzato dallo Sport Car Club of America al volante di una Lotus Elan, ma il debutto ufficiale è datato 1973, quando affrontò alcune gare dei campionati locali SCCA al volante di una Datsun 510, mentre l’anno seguente si cimentò anche nelle più importanti serie Trans-Am e IMSA con una Ford Escort.
L’entusiasmo è alle stelle, tanto che nel 1975 lasciò la scuderia del suo mentore Bob Sharp, accusato di prendere troppo sul serio le corse, per mettersi in proprio: nacque così il team PLN Racing, che avvalendosi di una Triumph TR6 ottenne nel 1976 il primo successo importante, il titolo di Campione Statunitense SCCA Classe D. Sempre nello stesso anno fondò un’altra scuderia, la Newman Freeman, questa volta insieme a Bill Freeman: impegnata nei campionati Can-Am, Formula Indy e IMSA, nel 1977 permise a Newman di partecipare al suo primo evento veramente importante. Stiamo parlando della 24 Ore di Daytona, dove corse al volante di una Ferrari 365 GTB/4 nel team ribattezzato Ramsey Ferrari/Modena: con lui i connazionali Elliot Forbes-Robinson e Milt Minter, con la sponsorizzazione di Clint Eastwood, amico di Paul Newman. L’avventura si concluse con un 5° posto assoluto.

Tuttavia il ’77 fu un anno privo di vittorie, portando l’attore a pensare seriamente all’abbandono del motorsport. Bob Sharp lo convinse tuttavia a tornare nel suo team e con la Datsun 280Z centrò il 2° posto nel Campionato Nazionale SCCA Classe C. Di lì a poco sarebbero arrivate grandi soddisfazioni, con una stagione 1979 da incorniciare. L’attore/pilota americano arrivò 3° nel Campionato Nazionale SCCA Classe B con la Datsun 280ZX , debuttando sempre con la sportiva nipponica serie IMSA e vincendo a Road Atlanta in SCCA. Ma il culmine più alto arrivò con l’ingresso nel team dello statunitense Dick Barbour: la 24 Ore di Daytona disputata con una Porsche 935 andò male, ma alla 24 Ore di Le Mans ottenne un incredibile 2° posto (1° nella Classe IMSA) in squadra con Barbour e il tedesco Rolf Stommelen. Per Newman fu una soddisfazione enorme, tuttavia l’ultima in terra straniera: infatti non gareggiò più all’estero a causa dell’eccessivo assedio di stampa e fan durante tutta la manifestazione francese. Il 1969 fu anche l’anno dell’ingaggio di Keke Rosberg, futuro campione di F1, che corse il Campionato CanAm con la Newman Freeman.

Lasciato il campionato IMSA nel 1981, l’anno fu la volta di correre in Trans-Am con la Datsun, con un trionfo a Brainerd a bordo della 280ZXT. Nel 1983 divenne socio di Carl Haas (da non confondere con l’attuale scuderia Haas di F1) per creare il team Newman/Haas, una delle squadre più vincenti nella storia dell’automobilismo a stelle e strisce. Il primo successo arrivò già nel 1984, con Mario Andretti che conquistò il campionato CART al volante di una Lola con motore Cosworth. La carriera da pilota di Newman non è però terminata: sempre a bordo di Nissan, vinse a Road Atlanta (SCCA) con la 300ZXT sia nel 1985 che nel 1986, anno in cui ottenne il secondo trionfo in carriera nella categoria Trans-Am, per la precisione a Lime Rock. Newman, ormai sessantenne, iniziò a risentire dell’età al volante, con risultati sempre meno convincenti che lo portarono nel 1987 a lasciare la IMSA, affrontando nel 1989 la Trans-Am con auto Oldsmobile.
Le più grandi soddisfazioni degli anni a seguire arrivarono dal team Newman/Haas: Michael Andretti si laureò Campione CART nel 1991 con una Lola-Chevrolet, mentre 2 anni più tardi fu la volta del trionfo nella serie erede della CART, la Indy Car, con la Lola-Ford pilotata dal britannico Nigel Mansell. Newman corse solo saltuariamente e sempre a bordo di una Ford Mustang: nel 1993 alcune gare in Trans-Am e nel 1995 un 3° posto assoluto (1° in classe GTS-1) alla 24 Ore di Daytona in squadra con Mike Brockman, Tom Kendall e Mark Martin. Da ricordare nel 1997 l’acquisto di una concessionaria Volvo Oldsmobile Mazda nel Connecticut.

La Newman/Haas rimase un fiore all’occhiello anche negli anni 2000. Il brasiliano Cristiano da Matta vinse il campionato CART del 2002 con una Lola-Toyota, mentre dal 2004 al 2007 il francese Sébastien Bourdais dominò con 4 titoli consecutivi (i primi 3 con una Lola-Ford e l’ultimo con una Panoz-Ford) in Champ Car, serie erede della CART. Nonostante fosse alla soglia degli 80 anni, Newman si dilettava ancora come pilota, apparendo nella serie SCCA nel 2002 con una Jaguar XKR e in Trans-Am nel 2003 con una Chevrolet Corvette. La sua ultima corsa importante si disputò nel 2005, quando prese parte alla 24 Ore di Daytona con Bourdais, Brockman e da Matta alla guida di una Crawford DP03 motorizzata Ford, costretto al ritiro solo da un incidente. Prima della sua scomparsa (datata 26 Settembre 2008) corse per l’ultima volta il 29 Settembre 2007, dove a bordo di una Chevrolet Corvette conquistò a Lime Rock una gara valevole per il Campionato SCCA. Ricordiamo poi con piacere nel 2006 il suo doppiaggio del personaggio Doc Hudson nel film d’animazione “Cars” della Pixar, con cui coniugò ancora le Passioni per auto e cinema.
Dopo la scomparsa dell’attore, inserito tra l’altro nel 2009 nella Sport Car Club of America Hall of Fame, si tenne un’asta della sua collezione privata di automobili. Tra le vetture battute vogliamo citare la sua Volvo 950, spinta da un motore Cosworth V8 da 400 cv e una Chevrolet Corvette da 670 cv.

Non sono finite le star del cinema abbagliate dal mondo delle competizioni più che dai riflettori. Il prossimo protagonista di #CiakSiCorre è tutto italiano: lo si potrebbe definire “veloce come il vento”….
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