#RacingFuels – Veronesi “tuti mati”

02/09/2017

Gli obiettivi: nella vita quotidiana come nello sport cambiano da persona a persona, nel nostro caso da veicolo a veicolo. Se il “mostruoso” DAF 95 TurboTwin, protagonista della scorsa puntata, si prefiggeva di diventare una pietra miliare dei prototipi tramite prestazioni e soluzioni meccaniche al limite, all’opposto vi è il Perlini 105F 4×4. Poco più che un normale mezzo pesante industriale, dotato solo di qualche elaborazione specifica qua e là, si dimostrò così performante, affidabile e vincente da meritarsi, tra gli Appassionati, il soprannome di “Delta dei camion”.
Abbiamo trovato l’odierno protagonista a gasolio di #RacingFuels, non ci resta che raccontarne l’avventurosa storia!

Impossibile comprendere appieno la storia alla Dakar di Perlini senza conoscere prima il suo retaggio industriale. Nel 1958 Roberto Perlini, veneto di San Bonifacio (VR) fino ad allora meccanico e autista di camion, fondò la sua compagnia di trasformazione di autocarri (Fiat, Lancia, OM, etc., tutti italiani) e di costruzione di contenitori per cemento sfuso. Da allora la crescita fu rapida e costante, fino ad arrivare ad un colosso industriale che negli anni ’80 poteva vantare al suo interno tutta filiera di produzione del mezzo pesante: dalla progettazione telaistica allo sviluppo di ingranaggeria, trasmissioni e differenziali, solo i motori (di fabbricazione Detroit Diesel) e gli pneumatici provenivano da fornitori esterni.
Da sottolineare il livello d’avanguardia che raggiunse. Trazione integrale, cambio a gestione elettronica attiva sincronizzato con le necessità del motore, sovralimentazione con compressore volumetrico a basso regime, in accoppiamento con turbocompressore che gli subentra dai medi regimi (come e prima della Lancia Delta S4): tutte soluzioni che permettevano ai camion Perlini di muoversi con nonchalance nelle cave, nei grandi cantieri delle opere pubbliche o nell’uso militare, tutti scenari per loro abituali.
Due le tappe fondamentali della storia della compagnia veneta: nel 1961 la nascita del Damper, il classico camion con cassone ribaltabile da allora diventato iconico; i contatti con la Cina tra il ’69 e il ’72, che fecero di Perlini il primo europeo occidentale a contribuire all’apertura dei rapporti con Mao Tse Tung, non solo commerciali con la vendita di mezzi pesanti e i corsi di formazione ai dipendenti cinesi, ma anche diplomatici divenendo punto di riferimento del governo per mediazioni e consulenze.

Si possono dedurre lo spirito di innovazione e la capacità di cogliere le grandi occasioni propri dell’azienda e non ci si stupisce quindi di come, in modo quasi casuale, sia nata l’avventura sportiva di Perlini. Nel 1987 Jacques Houssat, capo collaudatore Michelin e veterano dei rally raid africani, si reca nella sede della compagnia per alcuni test sugli pneumatici ad uso industriale. Il mezzo utilizzato era un 3 assi, di cui 2 sterzanti e dedicati alla trazione e 1, quello centrale, fisso. Sceso dal veicolo al termine delle prove, si sofferma a discutere con Francesco Perlini, figlio di Roberto che si occupava della parte tecnica e di collaudo, di come le indubbie qualità di guida del loro camion si sposerebbero alla grande con la Parigi-Dakar. Convincere Francesco fu un attimo e iniziò così la preparazione per il debutto alla Dakar 1988.
Inizialmente, come pilota del neonato 105F 4×4 da gara, venne scelto l’esperto Clay Regazzoni, ex campione di F1 che si dedicava ai rally raid dopo la paralisi occorsagli in seguito ad un incidente a Long Beach nel 1980. Il pilota svizzero però si ritirò dal progetto a soli 10 giorni dalle verifiche per la gare, quasi costringendo Francesco Perlini a prendere il suo posto: essere a 27 alla guida di un bestione da 12 tonnellate ne deserto, nonostante la grande esperienza come collaudatore, non deve essere stato facile!

Con quale mezzo si presentò la Perlini alla Parigi-Dakar del 1988? Come anticipato, il 105F 4×4 deriva strettamente dal 3 assi di serie testato da Houssat, discostandosi notevolmente dal concetto di camion/prototipo appositamente progettato per la competizione africana.
Partiamo dal motore, un Detroit Diesel 2 tempi a 8 cilindri da 12 l, sovralimentato con compressore volumetrico da 1.500 giri/min e con turbocompressore al di sopra di tale regime, era dotato naturalmente anche di un intercooler. Montato in posizione centrale per una migliore distribuzione dei pesi fra gli assi, beneficiava di una messa a punto specifica della centralina, che non solo portava la potenza dai 480 CV originali a 550 CV a 2.300 giri/min, ma migliorava anche l’allungo (sempre nei limiti di un propulsore per uso industriale) a discapito della spinta ai bassi regimi. La coppia era di ben 2.089 Nm a 1.200, trasmessa alle ruote grazie ad un cambio manuale a 8 rapporti sincronizzati.
Proprio il cambio (uno ZF 4 SGPA 150) era uno degli elementi con più modifiche specifiche: gli ingranaggi e il sistema di raffreddamento (con scambiatore di calore col circolo dell’acqua) rimanevano perfettamente uguali a quelli di serie, con però la disposizione delle marce invertita in modo che i rapporti più lunghi, maggiormente utilizzati in gara, fossero più vicini al pilota, che con gesti meno ampi da eseguire si sarebbe stancato meno facilmente.
Lo sterzo era fornito di doppia idroguida per attenuare lo sforzo, comunque nell’ordine dei 40 kg; il comando rimase comunque diretto per le necessità di maneggevolezza, con la sterzatura dell’asse posteriore disinseribile anche in marcia.
Per quanto riguarda il corpo, venne eliminato l’asse centrale, così da fornirgli la leggerezza e l’agilità necessarie ad affrontare situazione limite.
Le sospensioni, uno dei punti di forza del mezzo, erano di tipo oleopneumaitco con ponti rigidi indipendenti dall’escursione di 375 mm; verranno irrobustite nel tamponamento interno dopo che saranno protagoniste di un fastidioso guasto durante una prova.
I freni, tutti a disco autoventilante, avevano diametro 470 mm e spessore 42 mm ed erano dotati di doppie pinze: un sistema di tutto rispetto, che aveva a che fare con il notevole peso di 12.800 kg in ordine di gara.
La massa era di 10.900 kg a vuoto, più 860 l di carburante nei 2 serbatoi, 100 l di liquido refrigerante per i radiatore, 45 l di olio motore, 50 l nel serbatoio dell’acqua potabile, 2 ruote di scorta, attrezzi, ricambi, piastre anti-sabbia, i 3 uomini dell’equipaggio e anche altro peso derivante dai sistemi di lubrificazione e raffreddamento di sospensioni, cambio, freni, idroguide, differenziali, etc.
La trazione integrale permanente era garantita da 3 differenziali (1 per asse più il centrale), tutti bloccabili singolarmente o insieme direttamente dall’abitacolo.
L’impianto elettrico, già a norma dei rigorosissimi test NATO, fu ulteriormente potenziato per garantire affidabilità e resistenza assolute.
Per un’avventura come la Dakar erano necessarie “calzature” adeguate, ecco quindi le Michelin XS specifiche per le competizioni, con misure 14”x25” da sabbia (adatte fino a 160 km/h) e 17,50”x25” (con battistrada più aggressivo) per il fango; le pressioni di gonfiaggio variavano da 2,5 atm su fondi compatti a 0,5-1,0 atm su terreni cedevoli.
Tra gli accorgimenti specifici è da segnalare il filtro/separatore di impurità del gasolio, indispensabile in Africa, che tramite centrifuga scindeva il 99% dei corpi estranei presenti nel carburante.
Internamente la cabina presentava innanzitutto controlli elettrici il più ergonomici possibile per il meccanico seduto nel posto centrale; il navigatore poteva invece contare su un supporto, facilmente posizionabile anche davanti ad un altro membro dell’equipaggio, che conteneva il trip master e la bussola elettronica. Sedili anatomici (accorciati per permettere la seduta più raccolta tipica dei camion), cinture da competizione, pedane poggiapiedi, roll-bar interno ed esterno ed estintori completavano la dotazione.
Col tempo, l’esperienza portò numerose altre modifiche. Ad esempio il parabrezza diviso in due parti, per avere ricambi più leggeri e facili da sostituire. Oppure lo spoiler interno anteriore, che proseguiva internamente alla struttura: permetteva non solo di convogliare ulteriore aria per il raffreddamento del motore centrale, ma forniva anche quella deportanza aerodinamica necessaria a non far “galleggiare” l’asse anteriore alle massime velocità.

A proposito di prestazioni, il Perlini 105F 4×4 raggiungeva i 148 km/h, con uno scatto da 0 a 100 km/h in 22 s. Vigoroso già ai 1.500 giri/min, il suo range ideale di utilizzo era tra i 1.600 e i 2.300 giri/min, dove risultava sempre vivace e reattivo anche grazie ad un cambio sempre facile da manovrare, con la soluzione di rovesciare la disposizione delle marce molto azzeccata.
Le 4 ruote sterzanti facevano la differenza donando un raggio di sterzata insospettabile per un bestione del genere. I freni, potenti e infaticabili, infondevano una grande sicurezza. La caratteristica però peculiare era la capacità di affrontare in scioltezza i terreni molto accidentati, con rocce, buche e scanalature anche di 70-80 cm: mentre le auto, o comunque veicoli più piccoli, dovevano rallentare per non rischiare di cadere a pezzi o diventare ingovernabili, il Perlini poteva permettersi andature nell’ordine degli 80 kmh, che compensavano i tratti veloci dove ovviamente pagava pegno.
Tutte queste prestazioni per circa 250.000.000 Lire (150.000.000 Lire il prezzo della versione di serie), molto poco rispetto agli investimenti miliardari delle case ufficiali come Peugeot-Citroën. La partecipazione invece costava circa 500.000.000 Lire alla compagnia veneta: 300.000.000 Lire per test e sviluppo, 200.000.000 Lire per la partecipazione vera e propria (rifornimenti, ricambi, trasferte, etc.). Erano comunque investimenti che fornivano, oltre ad un notevole ritorno pubblicitario, anche la possibilità di sperimentare nuove soluzioni tecniche all’avanguardia, spendibili poi nella normale produzione di serie.

Tre furono i camion gemelli allestiti per il debutto del 1988, uno per l’equipaggio Perlini-Morigi-Vinante, uno per Houssat-De Saulieu-Bottaro e uno infine per Biffideni-Antolini-Boni. Il team del collaudatore francese ottenne un notevole 4° posto assoluto tra i camion (1° tra quelli di serie), con gli altri due equipaggi costretti invece al ritiro. Per vedere la prima vittoria del gigante veneto non si dovette aspettare molto, con il trionfale Rally dei Faraoni 1988. Questa vittoria aprì un ciclo con 4 successi consecutivi nella categoria camion tra il 1990 e il 1993, riuscito nella storia solo a Mercedes-Benz negli anni ’80 e ai russi di Kamaz tra il 2002 e il 2006. Ultima ma non meno importante è la vittoria alla Parigi-Mosca-Pechino del 1993.

Tantissimi gli aneddoti da ricordare. Ad esempio di quando nel 1991 Francesco Perlini, per dimostrare la solidità dei suoi camion, partì per la Dakar senza pezzi di ricambio: inutile dire come questa eccesiva spavalderia gli fu “fatale”, con la rottura di una sospensione che lo portò al ritiro in quell’edizione.
Tutto il suo ingegno si mise comunque in mostra in un’altra occasione di quella stessa edizione. Durante una tappa l’equipaggio calcolò di avere circa 2 l di carburante in meno rispetto a quello per terminare con tranquillità la giornata lunga 600 km: la soluzione più naturale fu quella di urinare nel serbatoio per diluire il gasolio e, forse sorprendentemente, funzionò alla grande!
Aneddoti decisamente più romantici sono quelli sulla solidarietà tra equipaggi rivali. In un’epoca in cui il GPS non era ancora previsto, capitava spesso che molti veicoli fossero ancora in marcia durante la notte, traditi da cartine e bussole. In queste condizioni erano la norma bivacchi improvvisati dove ci si divideva il cibo, magari una scatoletta di tonno con Vatanen o un piatto di pasta con un conterraneo fin lì mai conosciuto: è il caso di Francesco Perlini e un pilota di camion sopraggiunto nel cuore della notte, offrendo una bombola di gas per cucinare un piatto di pasta; inutile dire che sono poi rimasti amici negli anni a venire.
Nonostante questi momenti, le differenze tra equipaggi erano notevoli. I team ufficiali di grandi case, come Peugeot-Citroën potevano contare su schiere di meccanici per minuziose riparazioni, docce calde, pasti sempre abbondanti e tende comode per riposare. Squadre più “all’avventura” invece passavano giorni senza lavarsi, mangiando male e dormendo poco per via delle riparazioni notturne.
Come in tutte le situazioni i più abbienti vengono visti di cattivo occhio, siccome molte volte a questa superiorità economica si aggiungono comportamenti altezzosi. Come quando Perlini trasportò pezzi di ricambio per la Citroën ZX di Vatanen, ricevendo come ringraziamento solo delle magliette per l’equipaggio. Non fu però il caso di Jean Todt, che si levò il cappello dinnanzi alle imprese del camion veneto. Direttamente a Francesco disse: “Chapeau monsieur Perlini, noi spendiamo 15 miliardi all’anno (di lire o di franchi, ndr) per sviluppare i nostri motori e poi ci arriva davanti il suo camion”.

Tanto di cappello veramente, di fronte ad un camion che ha incarnato appieno i concetti di affidabilità e performance.Il Perlini ha infatti dimostrando come, grazie questa volta al genio dei tecnici italiani, come l’evoluzione del motore diesel sia arrivata ad un punto tale da permettere ad un mezzo pesante, per di più praticamente di serie, di tener testa a prototipi iper evoluti mascherati da normali autovetture.
Non mancare alla prossimo appuntamento con #RacingFuels, torneremo alle piste con una rombante bavarese a gasolio!

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– la Squadra Storie SCL