#RacingFuels – La Cummins Diesel scrive la storia alla 500 Miglia di Indianapolis

07/2017

Tutti gli Appassionati sanno che, da circa un decennio a questa parte, le gare automobilistiche di durata sono dominate da vetture con propulsori a gasolio o che comunque si basano su motori diesel coadiuvati da unità elettriche. La storia della creatura di Rudolf Diesel nelle competizioni risale però a molto prima, ai primi decenni dell’automobilismo sportivo e per la precisione al 1931, anno in cui si tenne la 19^ edizione della 500 Miglia di Indianapolis.
Proprio qui ci porta la prima puntata della rubrica #Racing Fuels: questo nuovo viaggio insieme si pone l’obiettivo di ripercorrere la storia nel Motorsport dei carburanti alternativi alla benzina, fino ad arrivare ai più recenti propulsori elettrici. Capiremo così insieme quale evoluzione tecnica c’è stata e quale futuro hanno combustibili come il gasolio, al centro di un aspro dibattito negli ultimi anni. Possono essere ancora affinati? Oppure sono superati e bisogna abbandonarli? Le alternative sono già pronte o vanno ancora sviluppate? Al termine di questo entusiasmante viaggio nel mondo delle competizioni, avrete certamente ancor più elementi a disposizione per rispondere a questi complessi quesiti. Cosa aspettiamo? Cominciamo!

Indice articolo


Dal farsi pubblicità al fare la Storia

Era il periodo della Grande Depressione, onda lunga della famosa crisi finanziaria del ’29. Così come altri ambiti, anche l’automobilismo sportivo incassava duri colpi e persino la famosissima Indy 500 faticava a trovare equipaggi con le finanze necessarie a partecipare. Il proprietario dell’Indianapolis Motor Speedway e capo dell’AAA Contest Board, l’eroe della Grande Guerra Eddie Rickenbacker , accettò perciò la proposta di partecipazione di un’auto a gasolio.

Tale richiesta fu fatta da Clessie Lyle Cummins, meccanico autodidatta dell’Indiana, già nel 1911 nella squadra pit stop del vincitore della Indy 500 Ray Harroun. Proprietario di una ditta fabbricante motori diesel, Cummins modificò un propulsore navale per l’uso in pista, con lo scopo di farsi pubblicità in un periodo difficile per gli affari di tutti. La sua auto, una Model A Duesy per uso passeggeri, fu quindi dotata di un motore navale Model U da 6.0 l, 4 cilindri, 3 valvole e dalla potenza di 85 cavalli. La vettura, contando il pilota e il meccanico che per regolamento doveva essere a bordo, pesava 3380 libbre, ovvero circa 1533 kg, risultando la seconda più massiccia fra gli iscritti del 1931.

Un po’ per via della massa, un po’ per la cilindrata troppo alta, ma anche per le prestazioni velocistiche del propulsore a gasolio, inferiori a quelle dei benzina, si dovette aggiungere una postilla al regolamento, di fatto costituendo una classe a parte per i motori diesel. Infatti per qualificarsi la vettura avrebbe dovuto tenere una velocità media di 70 mph, equivalenti a circa 113 km/h; per fare un confronto, le auto a benzina più performanti riuscivano a tenere medie di 110-115 mph (178-185 km/h). Con al volante il veterano di Indianapolis Dave Evans, l’auto di Cummins ottenne un’incredibile velocità media di 96,871 mph (circa 156 km/h), qualificandosi 43^ e ottenendo il 40° posto sulla griglia di partenza.
Durante una prova a Daytona Beach, Cummins aveva già verificato che la sua vettura avrebbe potuto viaggiare a circa 100 mph di media. Confidava perciò in una gara a circa 80-85 mph (129-137 km/h) e senza pit stop (cosa mai avvenuta fino ad allora nella Indy 500) per raggiungere il suo scopo: mostrare a tutti l’affidabilità e l’ampia gamma di applicazione dei suoi motori a gasolio.

La gara fece la storia e non senza un colpo di scena. Jimmy Doolittle, superstar dell’aviazione, fu assunto con il compito di gestire i segnali per il pit stop della squadra di Cummins. Nelle prime fasi della gara le intense vibrazioni del motore diesel ruppero l’indicatore della temperatura motore: il pilota Evans e l’esperto meccanico di bordo, Thane Houser, fecero i segnali pre accordati verso il loro box, ma Doolittle, che aveva perso il biglietto con il significato di tali segnali, li interpretò come “tutto ok” e rispose salutando e inviando baci.
Nonostante questo imprevisto e un grave incidente in testa alla corsa (una ruota, staccatasi da un’auto di testa, uccise un bambino che giocava nel giardino di casa, accanto al circuito), la bianca Cummins n°8 tagliò il traguardo al 13° posto. Incredibili i numeri di tale impresa: velocità media di 86,170 mph (circa 139 km/h), 31 galloni di gasolio (circa 118 l) usati, per un consumo medio di 16 mpg (circa 7 km/l) e una spesa di 1,40$, più 1$ di lubrificanti. Nonostante le preoccupazioni per la temperatura del motore, i valori rimasero attorno ai 165 °F (circa 74 °C), con un consumo di 2 pinte (circa 1 l) di acqua per il raffreddamento.

La vettura partecipò ad un tour europeo organizzato dalla London’s Wakefield Oil Company, che successivamente divenne cliente di Cummins acquistando i suoi motori Model U per equipaggiare camion e autobus. Dopo un tour negli USA (tra l’altro a bordo di un camion motorizzato Cummins), il circus della Indy 500 si imbarcò per l’Europa, toccando Francia, Inghilterra, Italia e Svizzera. Il successo di pubblico fu enorme, con tantissime persone che poterono ammirare le vetture che avevano gareggiato nella 500 Miglia, modificate solo parzialmente per l’uso stradale: fari, parabrezza, capotte in tela e un vano bagagli. Le potenzialità del motore diesel iniziavano a mostrarsi al pubblico.


Le sorelle del ’34

Gli affari beneficiarono dei riflettori puntati sull’azienda di Clessie Cummins, permettendo di trovare i fondi per una nuova avventura a Indianapolis nel 1934.
All’interno del reparto tecnico c’era un acceso dibattito, legato all’architettura che avrebbe consentito più affidabilità e minori consumi: il nuovo motore da competizione avrebbe dovuto essere un innovativo 2 tempi o il classico 4 tempi che tante gioie aveva regalato nella precedente partecipazione? Per tagliare la testa al toro, come si dice in gergo, Mr. Cummins decise di produrre entrambe le versioni di propulsore, gareggiando con addirittura due auto. Entrambe basate su telai Duesenberg come nel ’31 e dotate di compressore volumetrico di tipo Roots, la vettura n°5 fu quella a montare il 2 tempi, mentre la n°6 fu equipaggiata col tradizionale 4 tempi.

La 22^ edizione della 500 Miglia di Indianapolis vide un importante cambio nel regolamento: la quantità di carburante permesso a bordo nelle taniche venne limitata a 15 galloni (circa 57 l), con una disponibilità di carburante per tutta la gara di 45 galloni (circa 170 l); le auto con motore a 2 tempi avevano invece una disponibilità totale limitata a 55 galloni (circa 208 l).
Sia Dave Evans a bordo della Cummins Diesel n°6, sia il veterano delle corse “Stubby” Stubblefield sulla n°5 si qualificarono per la gara, rispettivamente in 22^ posizione con velocità media di 102,414 mph (circa 165 km/h), e 29^ posizione con media di 105,921 mph (circa 170 km/h). Da sottolineare il miglioramento della velocità media tenuta rispetto a 3 anni prima, indizio di un progresso tecnologico mai interrotto dal team.

Come sempre la gara non fu avara di emozioni e colpi di scena. Al giro n°81, dopo 270 miglia (circa 435 km), Evans polverizzò la trasmissione a 3 marce della sua vettura, subito dopo l’uscita dai box al termine del primissimo pit stop. Anche la Cummins Diesel n°5 non se la passava bene, con fortissime vibrazioni che allentarono il tubo di scarico e alcuni raccordi del motore.
Come se non bastasse, Stubblefield si scottò un piede a causa del pedale della frizione incandescente: venne quindi trasportato nell’ospedale mobile del circuito, con Evans che prese il suo posto durante le cure. “Stubby”, che di lì ad un anno sarebbe deceduto col suo meccanico Leo Whittaker durante un giro di qualifica, si riprese e tornò al volante della sua malconcia vettura a 2 tempi, firmando un risultato storico: 12° posto, miglior piazzamento di sempre di una vettura diesel a Indianapolis.

Riportata la vettura in garage e finalmente spenta, il motore si fuse completamente facendo andare su tutte le furie Clessie Cummins: sbattè la porta e aiutato dal meccanico Houser strappò il motore dalla vettura; lo caricò su un camion e nella notte lo gettò nel fiume White River.
Un risultato sportivo ineguagliato nella Storia non fu sufficiente al motore a 2 tempi per essere amato dal suo costruttore, a cui stavano a cuore più l’affidabilità e la solidità dei suoi propulsori, più utili agli affari. Per la cronaca, da allora la compagnia di Cummins ha prodotto solo ed esclusivamente motori a 4 tempi.


Il Calabrone Verde non punge

Ci vollero 16 anni, 11 edizioni della 500 Miglia, la Seconda Guerra Mondiale e l’inizio della Guerra Fredda per vedere un’altra auto diesel a Indianapolis: non poteva che essere una Cummins Diesel!
Nel frattempo la Cummins Engine Company era cambiata: Clessie Cummins andò in pensione nel 1950 lasciando una compagnia che, da piccola azienda nata dal nulla, era ormai leader nella produzione di motori per camion a navi, specialmente rinomata dopo le forniture militari per le guerre in Europa e nel Pacifico.

Era vicina l’introduzione del nuovo propulsore diesel JBS 600 a 6 cilindri e 4 valvole, quando fu contattato Frank Kurtis, costruttore di auto da corsa, per commissionare una nuova Indy car serie 3000. La struttura tubolare classica fu allargata di di 4 pollici (2,54 cm) per poter ospitare il poderoso motore a gasolio, formando la nuova Cummins Diesel Special che si apprestava a gareggiare nella Indy 500 del 1950.
La vettura venne affidata al 38enne nativo di Indianapolis Jimmy Jackson, reduce da esperienze sia come meccanico di bordo che come pilota, con il secondo posto da pilota nel ’46 come miglior risultato. Lo stesso Jackson insistette perché la vettura fosse verniciata di una tonalità livida di smeraldo, colore scaramanticamente visto di cattivo occhio nell’ambiente delle corse. Per come andò l’avventura del ’50, forse per una volta era meglio ascoltare la superstizione.

Nonostante un profondo lavoro di alleggerimento riguardante testa, monoblocco, pistoni e addirittura basamento in magnesio, il JBS 600 da 401 pollici cubi (circa 6.5 l) risultava ancora troppo pesante. Fu potenziato il compressore Roots e aggiunti cavalli fino a raggiungerne tra i 340 e i 345 a 4000 giri, ma in qualifica la velocità media non andò oltre le 129,9 mph (circa 209 km/h), che decretarono il penultimo posto (33°) sulla griglia di partenza per la vettura soprannominata “The Green Hornet” (il Calabrone Verde).

Ai box Don Cummins, fratello di Classie e capo degli ingegneri, e il fido Houser avevano elaborato una strategia semplice: raggiungere e mantenere il passo ottimale, con solo un pit stop per rifornimento e cambio gomme.
Jackson riuscì nel compito nella primissima parte di gara, dovendosi però arrendere al 50° giro mentre si trovava in 16^ posizione: una staffa di montaggio per l’ammortizzatore delle vibrazioni del motore si ruppe e il grande propulsore incominciò a cadere a pezzi sotto l’azione delle violente vibrazioni. La Cummins Diesel Special fu costretta al ritiro. Il “Calabrone Verde” si riscattò parzialmente quello stesso anno, stabilendo diversi record di velocità in piano (sia a livello statunitense che internazionale) alle Bonneville Salt Flats.

Il trionfo

Dopo il fiasco del 1950, Don Cummins e la sua squadra tornarono a Columbus comunque con la convinzione che un’auto diesel avrebbe potuto trionfare alla 500 Miglia di Indianapolis, tenendo conto del suo vantaggio sulla cilindrata. Per regolamento infatti i motori diesel sovralimentati potevano avere una cubatura massima del 50% superiore rispetto ai convenzionali motori da corsa aspirati (6.6 l contro 4.5 l): questa maggior poderosità unita alla sovralimentazione aveva secondo Don un potenziale ancora inespresso, soprattutto se ad un motore diesel appositamente progettato per le corse (e non adattato come in passato) si fosse accoppiato il telaio giusto.

Si cominciò quindi a pensare all’edizione del 1952 progettando un nuovo propulsore a 6 cilindri senza compromessi. Per abbassare il centro di gravità, sarebbe poi stato montato orizzontalmente su una roadster fatta su misura e commissionata alla Kurtis-Kraft. Frank Kurtis, già noto per aver partecipato alla creazione dell’auto del 1950, disegnò l’auto con l’albero di trasmissione che correva lungo il fianco sinistro del pilota. Questa garantiva due benefici: uno spostamento del peso all’interno della traiettoria nelle curve a sinistra (e tutte le curve della Indy 500 lo sono), oltre a permettere un ulteriore abbassamento del centro di gravità. La progettazione dell’auto continuò nella galleria del vento della University of Kansas, sotto l’occhio del veterano di Indianapolis Fred Agabashian che ne sarebbe stato il pilota. Il motore Model NHH fu radicalmente alleggerito con componenti in magnesio, raggiungendo un peso di 750 libbre (circa 204 kg) e una potenza di 380 cavalli grazie alla sovralimentazione. Nonostante tutto questo, con il pilota a bordo e 50 galloni (circa 4 l) di olio lubrificante, la Cummins Diesel in livrea giallo-rossa raggiungeva le 3100 libbre (circa 1400 kg) rischiando di compromettere la durata degli pneumatici.

Le qualifiche divennero teatro delle potenzialità del nuovo mezzo: stupendo tutti i presenti, spettatori, esperti e stampa, Agabashian fissò una mostruosa velocità media di 138,010 mph (circa 222 km/h), strappando la pole position. Anche uno dei rappresentanti della Champion, famosa azienda produttrice di componenti per auto, si avvicinò al pilota per allungargli una candela della propria compagnia per  farsi pubblicità: curioso pensando come  i motori a gasolio non abbiano candele di accensione….

Uno dei segreti tecnici della vettura prima in griglia di partenza era un meccanismo che permetteva 4 volte al giro di reindirizzare l’aria dal corpo vettura al grande radiatore, sia per raffreddare il motore che come freno aerodinamico. La Cummins Diesel si issò così in gara fino alla 5^ posizione, lontano dalle vetture di testa ma davanti a un certo Alberto Ascari su Ferrari con propulsore da 4.5 l. Al giro n°70 e dopo 175 miglia, sempre mentre era in 5°, iniziò ad uscire del denso fumo nero dalla vettura: due giri dopo Agabashian fu costretto al rientro ai box e al ritiro. La prima diagnosi fu che il compressore aveva aspirato polvere di gomma e detriti della pista, otturandosi. Ma la vera causa dei problemi fu scoperta solo 16 anni dopo.

Dopo la gara, la vettura  fu portata nella sede della Cummins Engine Company per essere esposta e saltuariamente portata a diversi saloni dell’auto e manifestazioni. Nel Maggio del 1969, in occasione del 50° anniversario dell’azienda, il motore venne smontato per essere mostrato al pubblico e qui avvenne la clamorosa rivelazione: l’albero a gomiti presentava una grossa crepa che correva tra il secondo e il sesto perno, significando che non sarebbe durata più di 2 giri prima di spezzarsi. La vicenda fu insabbiata convincendo i testimoni presenti, infatti una diffusione della notizia avrebbe distrutto la fama dell’azienda, che si vantava di come tutte le sue 5 auto partecipanti alla Indy 500 non avessero mai avuto rotture al motore (nessun problema nel ’31, problemi a cambio, scarico e supporti motore nel ’34, con la fusione del motore nascosta per sempre nel White River, rottura del supporto motore nel ’50, intasamento del compressore nel ’52). Il motore Model NHH rimase così uno dei più venduti, con esemplari ancora circolanti nei primi anni 2000.

Lo shock portato dalla pole position di Agabashian fu notevole: le cosiddette squadre fondatrici, ovvero le più influenti e solitamente anche più abbienti, utilizzavano propulsori aspirati della serie 270 Offy, che come precedentemente detto  erano fortemente svantaggiati in termini di cilindrata massima rispetto ai motori sovralimentati a gasolio o ai V8 di Detroit (Ford e GM in primis). Su pressione di questi team, il regolamento fu rivisto, riducendo il gap di cilindrata e di fatto azzerando il vantaggio dei diesel, che a Indianapolis non si videro più.

L’eredità delle Cummins Diesel

Che fine fecero quindi le uniche vetture a gasolio della storia di Indy? Nel 1969 furono restaurate sia la pioniera del 1931 che l’ultima arrivata del 1952: fecero alcuni giri di esibizione sul circuito prima di essere definitivamente esposte all’Indianapolis Motor Speedway Hall of Fame Museum. Solo nel 2001 l’auto del 1931 fu provvisoriamente spostata, solo per presenziare al famosissimo Goodwood Festival of Speed in Inghilterra. Il “Green Hornet” del 1950 rispuntò solo negli anni ’70 in Minnesota, dove era stato convertito ad auto da dirt track racing, disciplina tipica statunitense su piste ovali e sterrate. Dei tecnici specializzati restaurarono la vettura riportandola all’antico splendore e anch’essa fa oggi bella mostra di sé al museo con le sue sorelle.

Più articolata la storia delle 2 vetture del ’34. Nel 1968 un edificio di mattoni, distante poco più di un miglio dalla sede centrale della Cummins a Columbus, stava per essere demolito. Soprannominato “la fabbrica degli errori” dai dipendenti, ospitava tutti i prototipi sperimentali non riusciti. All’ora di pranzo, due curiosi dirigenti vollero verificare di persona cosa ci fosse nella struttura prima dell’abbattimento e meno male che ebbero questa intuizione. Dietro a una porta murata si nascondevano le due vetture del 1934, oltre a una decappottabile Auburn che Clessie Cummins aveva dotato di motore a gasolio a metà anni ’30. Non si è mai scoperto come si sia potuta perdere traccia di auto così importanti per 34 anni, ma la cosa importante è che siano state trovate, restaurate ed esposte anche loro al museo di Indianapolis.

Qui si chiude questa prima parentesi di #RacingFuels. Speriamo che l’avvincente storia delle Cummins Diesel abbia appassionato anche te tanto quanto noi.
Nella prossima puntata cambieremo continente, con i motori diesel che si cimenteranno in Europa, addirittura nel rally più famoso del mondo… non mancare!

Qui sotto puoi goderti tutte le immagini delle auto della Cummins Diesel.
Puoi trovare la rubrica completa nella pagina dedicata, oppure nella sezione Storie insieme ad interessanti contenuti esclusivi.
Per tutte le altre novità del mondo SCL ti rimandiamo alla nostra sempre aggiornata pagina Facebook ufficiale.
Vivi la Passione con noi!

– la Squadra Storie SCL