#RacingFuels – Punto d’incontro

20/01/2018

Nel corso del viaggio di #RacingFuels abbiamo già incontrato la Lola Racing Cars. La casa britannica, specializzata nella progettazione e costruzione di prototipi da corsa, ci fornisce nella puntata odierna un punto d’aggancio tra diversi carburanti/propulsori: benzina, etanolo ed elettrico. Tutto questo grazie all’input di Lord Drayson. Vediamo nel dettaglio questa storia!

Tutto cominciò nel 2007, quando Lord Paul Drayson lasciò il suo incarico governativo al Ministero per la Difesa britannico con lo scopo di dimostrare la possibilità di un Motorsport ecosostenibile. La prima creatura data alla luce dalla Drayson Racing Technologies fu una Aston Martin GT2: alimentata da bioetanolo di seconda generazione, gareggiò nell’American Le Mans Series e alla 24 Ore di Le Mans del 2009.

Fu però dall’unione con Lola che nacquero i progetti più interessanti, innanzitutto la Lola-Drayson B09/60. Realizzata per sottostare al regolamento Lmp1 in vigore per la 24 Ore di Le Mans, questo prototipo fu tra i primi ad adottare l’abitacolo chiuso fra i team privati.
Il telaio monoscocca ed il crash box erano in fibra di carbonio, con corpo vettura da 4.634 x 1.990x 2.890 mm.
Le sospensioni seguivano lo schema push-rod sia all’anteriore che al posteriore, con l’adozione di molle comandate attraverso rocker.
La trasmissione era affidata ad un cambio sequenziale X-track a 6 marce con comandi al volante. Freni con pinze AP Racing a 4 pistoncini, dischi in carbonio ventilati e ruote da 18 pollici di diametro gommate Michelin completavano la vettura, per un peso complessivo di circa 900 kg.

La parte culminante era il propulsore: si trattava di un Judd GV 5.5, un 10 cilindri aspirato a V di 72°, con 4 valvole per cilindro e doppio asse a camme in testa, per un peso di 135 kg. La sua potenza massima erogata era di oltre 650 CV a 7000 rpm. Tale motore fu progettato per essere molto flessibile e quindi alimentabile sia attraverso classica benzina da gara che da bioetanolo E85 (85% bioetanolo e 15% benzina) di seconda generazione.
Lord Drayson partecipò con questa vettura alla 24 Ore di Le Mans del 2010 e vinse la gara di Road America nell’ALMS dello stesso anno.

Partendo dalla stessa base meccanica, incrementando il peso solo di un quintale (1.085 kg complessivi), fu poi progettata una vettura completamente elettrica, la Lola-Drayson B12/69EV. La Drayson Racing Technologies sviluppò propulsori Oxford YASA a flusso assiale capaci di sviluppare 160 kW (circa 218 CV): la B12/69EV ne possedeva addirittura 4 per totale di 640 kW (oltre 850 CV). Trasmessa alle ruote posteriori tramite un cambio a singolo rapporto, questa potenza ha permesso alla vettura di stabilire il nuovo record di velocità per veicoli elettrici, con una velocità massima raggiunta di 328,604 km/h (ovvero 204,185 mph). Anche lo spunto è notevole, con il tempo per passare da 0 a 60 mph (96,56 km/h) fissato in 3 s e da 0 a 100 mph (160,93 km/h) in 5,1 s.

Il design dell’auto era incentrato sull’ottimizzazione delle prestazioni nelle qualifiche e in corse brevi. Le prestazioni in termini di durata nelle auto elettriche infatti non andavano, e non vanno tuttora, di pari passo con le strabilianti prestazioni velocistiche. Le batterie di nuova generazione al litio nanofosfato, prodotte esclusivamente dalla A123 Systems e utilizzate per la prima volta sulla B12/69EV, avevano infatti una durata di soli 15 minuti circa in modalità gara.
La ricarica avveniva tramite un sistema di induzione wireless Qualcomm HaloIPT, in cui le bobine posizionate sul fondo del veicolo iniziano ad alimentare le batterie una volta posizionata la vettura sopra le piastre di ricarica poste ai box. I problemi di sicurezza sono stati fondamentali per il processo di progettazione, con il team che ha garantito lo scaricarsi delle batterie all’impatto e l’eliminazione dei rischi di incendio. Le batterie e i motori elettrici erano situati dietro il pilota, insieme agli inverter di potenza e al sistema di raffreddamento.

Altre caratteristiche peculiari del modello erano: un singolo riduttore che collegava i motori elettrici agli alberi di trasmissione, sistemi di controllo elettronici forniti da Cosworth, ammortizzatori elettrici Multimatic e nuove caratteristiche aerodinamiche attive sviluppate da Lola in collaborazione con BAE Systems (quest’ultima anche responsabile dello sviluppo della struttura composita della batteria).
Due innovazioni su tutte però evidenziavano lo scopo di Lord Drayson di coniugare l’automobilismo sportivo con l’ambiente: la nuova fibra di carbonio riciclata sviluppata internamente da Lola e i pannelli di carrozzeria riciclabili del gruppo Warwick Manufacturing Group.

Da qui ripartiremo nel prossimo appuntamento con #RacingFuels. Abbiamo infatti introdotto l’uso del bioetanolo nelle competizioni: quali altre vetture hanno scelto questa opzione? Continua a seguirci per scoprirlo!
Qui sotto puoi invece gustarti la galleria di immagini della Lola-Drayson B12/69EV.
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– la Squadra Storie SCL

#RacingFuels – Ritorno al passato con l’auto elettrica?

23/12/2017

Qui a #RacingFuels abbiamo visto quali grandi e prestigiosi traguardi abbia raggiunto l’elettrico in coppia con un motore endotermico. Ma da solo? Beh qui il discorso è più particolare, esulando dal Motorsport e abbracciando più aspetti dell’automobilismo. Per questo anche la puntata sarà particolare: 2 parti, uno sguardo al passato a uno sguardo al presente, per vedere come l’auto elettrica non sia un pensiero futuribile ma un ritorno al passato.

Ieri

Difficile da pensare ma la mobilità elettrica è un qualcosa nato all’alba dell‘800. Basti pensare al primo esempio di veicolo elettrico a batteria datato tra il 1832 ed il 1839, ovvero quando lo scozzese Robert Anderson inventò la prima carrozza elettrica, oppure al professor Sibrandus Stratingh di Groningen, e alla sua piccola auto elettrica del 1835. Con il miglioramento delle batterie si diffusero poi i veicoli elettrici, soprattutto in Francia e Gran Bretagna
Ma quello che interessano a noi sono i risultati sportivi e cosa c’è di più trionfale, al di fuori delle gare, di sfoggiare un record? Nei primi del ‘900 erano le auto elettriche a detenere molti record di velocità e di distanze percorse con una carica. Tra i più notevoli l’infrangere la barriera dei 100 km/h di velocità: a riuscirvi, il 29 Aprile 1899, Camille Jenatzy e la sua Jamais Contente, con cui raggiunse la velocità massima di 105,88 km/h.
Con l’affinarsi della tecnica, quelli che una volta erano solo rumorosi, inaffidabili e complessi macinini si trasformarono nelle auto a combustione che hanno fatto la storia e ancora oggi ci accompagnano, nella vita di tutti i giorni come nei nostri sogni. Le auto elettriche subirono quindi un abbandono, fino agli anni ‘70. Complici la crisi petrolifera e un movimento hippie fortemente ambientalista, il tema dell’elettrico ritornò preponderante tra le case costruttrici. Sia al di là che al di qua dell’Atlantico ci furono progetti, studi e prototipi di auto a batteria: General Motors, Fiat, Volkswagen, etc. Per noi la più interessante è però una tedesca, l’Opel Elektro-GT.

Il nipote del fondatore della Casa del Fulmine, George von Opel, il suo stretto e fidato collaboratore, Franz Tarnow, e due grandi aziende come Varta e Bosch modificarono quella che in origine era una Opel GT 1900.
La propulsione era affidata a 2 motori Bosch accoppiati meccanicamente e modificati per avere un favorevole rapporto peso/potenza. Riuscivano a produrre 88 kw (circa 120 CV), che potevano salire a 117 (circa 160 CV) per brevi periodi, trasmessi alle ruote posteriori tramite un albero di trasmissione diretto.
La batteria, fornita dalla Varta, era del tipo nickel-cadmio e pesava 570 kg, capace di una tensione di 360 V e di una carica elettrica nominale di 40 Ah. Per le prove su lunghe distanze questa veniva supportata da una seconda batteria da 740 kg.
Tutto questo peso aggiuntivo fu alla base di un notevole irrigidimento delle sospensioni, ma non fu l’unica modifica alla GT. Dalle immagini è facile infatti notare le migliorie aerodinamiche, come le ruote semi-carenate.

La Elektro-GT riuscì a strappare 6 record mondiali di velocità (per veicoli elettrici) nel 1971 sul Circuito di Hockenheim: ¼ di miglio (85,87 km/h), ½ km, 1 km, 1 km con partenza lanciata (188,86 km/h), 10 km e 10 miglia. I tecnici di Russelsheim sostenevano inoltre che la vettura fosse in grado di raggiungere la stratosferica (per l’epoca) velocità massima di 240 km/h.
Nonostante questi risultati, fu evidente quanto la tecnologia elettrica applicata all’automobile fosse ancora acerba, con prestazioni, costi e livello progettuale a forte vantaggio dei più diffusi motori a combustione interna. Proprio per questo motivo fu quindi accantonata, in attesa però di essere riscoperta negli ultimi anni.

Oggi

Cosa è rimasto oggi degli esperimenti elettrici del passato? Molto se si guarda il presente e il futuro della ricerca automobilistica. Già a partire dalle auto da tutti i giorni per poi arrivare alle sportive, da sempre le preferite su Sports Car Legends.

Se segui come noi i saloni dell’auto che scandiscono la stagione motoristica, sarà stato impossibile non imbattersi nei progetti di molti costruttori, alcuni di fama e successo globali, altri di nicchia. Sembra infatti una vera e propria corsa alla supercar elettrica.
Tra queste vogliamo portare ad esempio la creatura del costruttore cinese NIO, la EP9. Vettura dai numeri esorbitanti: 1.000 kW (1360 CV circa) di potenza, autonomia dichiarata di oltre 400 km (degna delle migliori rivali non sportive), 2,53 g di forza laterale (alla velocità di 228 km/h), 0-100 km/h in 2,7 s e velocità di punta di 313 km/h, il tutto per la “modica” cifra di 1,48 milioni di dollari.
Sarà questo tipo di auto a dominare i sogni degli Appassionati del futuro? Non lo sappiamo, ma di certo il record assoluto sul giro stabilito dalla NIO EP9 al Nürburgring Nordschleife (6’45″90) è tale da lasciare aperta la questione.

Nelle competizioni invece? Beh qui a farla da padrone è ancora l’ibrido, ma c’è una competizione che si regge esclusivamente sui propulsori a batteria: la Formula E. Nata nel 2012 e cominciata nel 2014, sta riscuotendo sempre più successo e interesse da parte della critica ma soprattutto dei costruttori. Innegabile infatti che sia una palestra perfetta per mettere a punto futuri veicoli (di serie o supercar) che costituiranno una grossa fetta del nuovo mercato dell’auto.
Il roaster della prima stagione vedeva perlopiù team privati, siccome le vetture erano uguali per tutti e venivano fornite dalla collaborazione tra Spark Racing Technology e Reanult (costruzione), Dallara (telaio), McLaren Electronic Systems (sviluppo motore elettrico) e Williams (batterie).
Già però a partire dalla stagione successiva si diede modo ai vari team di poter sviluppare ed utilizzare motore, cambio e sistema di raffreddamento propri: questo ha dato un nuovo impulso, attirando i grandi costruttori che non si sono fatti attendere. A Renault e al suo team, dominatore della classifica costruttori nei primi 3 anni, nella stagione 2017-2018 la Formula E può vantare Audi (rima presente solo come supporto al team ABT), Jaguar, Citroën e Mahindra. Rumors della stampa hanno riportato come anche Ferrari stia valutando un futuro coinvolgimento nella serie. Visti gli attuali dissidi con gli organizzatori del Mondiali di F1, un passaggio alla “cugina” elettrica non sembra proprio fantascienza: sicuramente questo passaggio epocale darebbe la spinta definitiva alla Formula E per guadagnarsi l’interesse degli Appassionati.

Tecnicamente parlando la competizione è ovviamente all’avanguardia. Il corpo vettura misura al massimo 5.000 x 1.800 x 1.250 mm, con un’altezza massima da terra di 75 mm e un peso minimo (comprensivo del pilota e dei 230 kg di batterie) di 880 kg. Il telaio Dallara prevede una struttura in carbonio e kevlar, con cellula di sopravvivenza in fibra di carbonio e alluminio.
Il propulsore elettrico, accoppiato a batterie capaci di erogare 28 kWh, sviluppa una potenza massima di 200 kW (270 CV circa), che scendono a 180 kW (245 CV circa) durante la gara tranne che in alcune situazioni, denominate push-to-pass.
A completare il pacchetto ci pensano il sistema frenante con pinze a sezione circolare, i cerchi O.Z. Racing in magnesio da 260 mm davanti e 305 mm dietro, gli pneumatici Michelin utilizzabili sia su asciutto che su bagnato e infine il cambio sequenziale con massimo 5 marce (a discrezione del costruttore). Sì, avete sentito bene, un cambio su una vettura elettrica: se siamo abituati a vetture stradali a batteria con un singolo rapporto, in Formula E questa configurazione è scelta solo da alcuni team.

Questa la situazione attuale delle auto a batteria. L’evolversi di questa tecnologia è ancora tutto da vedere e la domanda cruciale “è pronto l’elettrico a raccogliere il testimone dei motori a combustione?” la lasciamo all’ultimo appuntamento con #RacingFuels. Ma prima dobbiamo ancora vedere un raffronto ravvicinato tra elettrico e benzina, oltre a tanti altri carburanti alternativi.
Qui sotto puoi gustarti la galleria di immagini della Opel Elektro-GT.
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– la Squadra Storie SCL

#RacingFuels – La terza via dell’ibrido

16/12/2017

Tra le auto ibride che si sono sfidate nel WEC abbiamo visto diversi tipi di motore endotermico accoppiati al sistema elettrico. Audi ha puntato sul turbodiesel, scelta spinta non solo dai consumi ridotti ma anche dai successi del TDI nel WTCC. Toyota è rimasta fedele alla tradizione corsaiola, con un benzina aspirato.
Quale iterazione manca all’appello? Ma certamente, il turbobenzina tornato di grande attualità negli ultimi anni. Con questa soluzione montata sul prototipo 919, Porsche si è presentata ai nastri di partenza della stagione 2014, ben 16 dopo l’ultima apparizione nella disciplina endurance. Vediamo cosa è successo nel nuovo appuntamento con #RacingFuels!

Sicuramente la casa tedesca non ha lesinato gli sforzi. A testimoniarlo innanzitutto il gigantesco team formato da 230 persone di cui 150 ingegneri. Oppure le 2000 ore di progettazione nella galleria del vento per affinare l’aerodinamica, ormai equiparata per importanza alla raffinatezza meccanica grazie al suo impatto su prestazioni ed efficienza. Tutto questo impegno fu alla base dell’aver portato in 2 anni o poco più una vettura dal classico foglio bianco (anche se ormai digitale e non cartaceo) alle piste di tutto il mondo. Raccogliendo anche molto di più di una semplice bella figura.
Partiamo allora dal sistema propulsivo. Innanzitutto il motore termico, scelta insolita per le competizioni sportive. Si trattava infatti di un 4 cilindri a V di 90°: questa scelta ha permesso da una parte un ingombro limitato nel vano motore, con conseguente accentramento delle masse e migliori flussi d’aria per raffreddare i componenti, ma dall’altra ha causato forti vibrazioni che, per essere risolte, hanno portato ad una quasi completa riprogettazione dell’unità.
Tecnicamente parlando il propulsore presentava una cilindrata di 2.0 l e una struttura in lega d’alluminio con componenti in titanio e magnesio. La distribuzione a doppio albero a camme in testa, con 4 valvole per cilindro, era accoppiata ad un turbocompressore che faceva schizzare la potenza erogata a oltre 500 CV.
Innovativa non era solo l’architettura, ma soprattutto il doppio sistema di recupero dell’energia: oltre all’ormai classico generatore per trasformare l’energia in frenata in corrente elettrica, la 919 aveva anche un generatore a turbina azionato dai gas di scarico. Questo agiva in parallelo al turbo, immettendo altra energia elettrica nelle batteria per tutta la durata del funzionamento del motore elettrico.

Abbiamo nominato la batteria. Posta sul lato destro dell’abitacolo, era agli ioni di litio quindi con un’alta densità di energia immagazzinabile. Dapprima questa capacità di accumulare, abbinata all’ampio range di situazioni in cui trasformare l’energia cinetica in elettrica, ha fatto propendere i tecnici di Stoccarda per l’entrata nella classe maggiore di recupero di energia, quella da 8 MJ. Si sono accorti però che solo a Le Mans si sarebbe potuto sfruttare appieno il potenziale di batteria e sistemi di recupero, per cui nel 2014 si sono accontentati della classe da 6 MJ, per poi entrare in quella successiva l’anno dopo grazie ad una forte ottimizzazione tecnica.
Veniamo infine al motore elettrico. Se all’inizio dell’avventura della 919 poteva contribuire con un surplus di 250 CV, ora del 2017 aveva raggiunto un livello di sviluppo tale da superare i 400 CV. Questo fu molto utile ma anche necessario visto che il propulsore, via via alleggerito nei suoi componenti, ha visto “scappare” qualche cavallo nel corso degli anni attestandosi infine sui 480-495 CV.

Altri sviluppi dell’auto hanno ridotto stagione per stagione il peso iniziale di oltre 30 kg, fino agli attuali 870 kg. I tecnici hanno giocato sullo sviluppo di componenti meccaniche meno massicce, ma anche di fino elaborando ad esempio nuove luci a led più leggere di 1 kg. La riduzione stessa di peso ha permesso di utilizzare freni più piccoli e di conseguenza lasciare ai box altri chilogrammi.
Se nella monoscocca (fibra di carbonio composita con pannelli d’alluminio a nido d’ape) o nella trasmissione (frizione in plastiche rinforzate in fibra di carbonio, cambio sequenziale a 7 rapporti attuato idraulicamente e il differenziale autobloccante) si vedono soluzioni adottate anche dalla concorrenza, è nell’aerodinamica che in Porsche hanno puntato forte. Non solo in fase di progettazione iniziale, come visto, ma anche nelle stagioni successive. Le intense e lunghe ore nella galleria del vento, tra l’altro di proprietà della scuderia Williams di F1, sono servite a mettere a punto quella che i tecnici chiamano sensibilità aerodinamica. Durante la gara la situazione sulla superficie dell’auto è in costante mutamento per via, ad esempio, dei detriti di gomma depositati sull’asfalto che si depositano sul muso della vettura sollevati dallo spostamento d’aria. Può sembrare irrisoria la differenza fatta sul comportamento dell’auto, ma secondo i complessi calcoli portati avanti a Stoccarda migliorare la reazione ad eventi come questo ha permesso di rendere più stabile e maneggevole il comportamento dinamico nelle curve.

Anche la 919 ha vissuto però, come tutte le auto, delle piccole crisi di progetto. Il turbocompressore nel 2014 tendeva infatti a surriscaldarsi, portando all’incendio delle componenti adiacenti. Oppure basti pensare ai pannelli carrozzeria flessibili dai flussi d’aria, non permessi dal regolamento e fortemente osteggiati dai rivali di Audi e Toyota.
Ma si sa, quando gli avversari cercano possibili irregolarità nel tuo progetto tante volte è perché stai fornendo una fiera competizione. Può essere stato questo il caso del prototipo Porsche, che fin dal 2014 ha dimostrato come un nuovo contendente per il titolo fosse sceso in pista. I 2 equipaggi, formati uno da Romain Dumas, Neel Jani e Marc Lieb e l’altro da Timo Bernhard, Mark Webber e Brendon Hartley, hanno raccolto complessivamente 3 podi (sempre 3° posto), una pole e una vittoria (alla 6 Ore di San Paolo), nonostante la macchia della 24 Ore di Le Mans con entrambe le auto ritirate.

Il 2015 ha visto le auto schierate salire a 3, con il nuovo equipaggio Earl Bamber / Nico Hülkenberg /Nick Tandy. Nonostante il loro exploit nella vittoria di Le Mans, sono stati i terzetti più rodati a dominare la scena: 5 vittorie e 5 podi in totale, titolo costruttori in bacheca e corona d’alloro del titolo piloti sulla testa di  Bernhard, Webber e Hartley.
Proprio questi due equipaggi sono stati riconfermati per la stagione 2016. Il dominio è proseguito, con 6 vittorie e 3 podi ma soprattutto entrambi i bis mondiali. Nel 2017 Webber, dopo il secondo titolo piloti conquistato l’anno precedente, ha lasciato il volante a Earl Bamber, ma il risultato non è cambiato: la Porsche 919 è stata ancora in cima al mondo dell’Endurance. Lo sarà anche nella prossima stagione 2018? Noi fan del Motorsport non vediamo l’ora di scoprirlo!

Si chiude così la nostra panoramica sull’ibrido nelle corse, ma #RacingFuels non finisce di certo qui! Aspettatevi una “scossa” dalla prossima puntata, non mancate!
Qui sotto puoi gustarti la galleria di immagini della Porsche 919 Hybrid.
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– la Squadra Storie SCL

#RacingFuels – La “Patriota” che tentò la via ibrida

09/12/2017

Sorpresa amici di SCL! Essendo in un periodo di festeggiamenti, sia natalizi che del primo anno insieme, abbiamo voluto stupirvi con un argomento diverso da quello preventivato alla fine della scorsa puntata.
#RacingFuels torna a raccontare una storia forse sconosciuta ai più ma dall’intenso fascino, che oltre 20 anni dopo dimostra come delle menti brillanti possano precorrere anche di molto i tempi.

Siamo nel 1992. Chrysler, colosso dell’automobile a stelle e strisce, aveva appena assunto l’ingegnere Ian Sharp, fresco di esperienza nel mondo delle corse britanniche. Aggregato alla sezione Liberty Technical Affairs, lavorò per un periodo a stretto contatto coi tecnici di Reynard e Lola per studiare gli sviluppi dei componenti in fibra di carbonio e delle tecniche produttive. Questo ispirò chiaramente Sharp, che si mise al lavoro giorno e notte per tre settimane su un progetto personale.
Si trattava di un prototipo ibrido, da far gareggiare nientemeno che alla 24 Ore di Le Mans del 1993. Il progetto fu presentato al capo ingegnere, Francoise Castaing, che supportò il progetto fino a condurlo nelle mani di Bob Lutz, responsabile dello sviluppo di nuovi veicoli. Venne così dato il via libera alla Chrysler Patriot.
Tecnicamente si fondava su 3 elementi: un motore elettrico per la trazione, un generatore a doppia turbina per sviluppare la corrente e una batteria a volano per immagazzinare l’energia durante la decelerazione e rifornire il propulsore.

Partiamo dall’unità motrice fornita dalla Westinghouse Electrical e strettamente derivata da quella utilizzata sui sottomarini dell’epoca. Era a induzione in corrente alternata trifase da 520 V, con 4 poli e capace di una potenza di 500 CV e velocità massima di rotazione di 24.000 giri/min. Aveva un alloggiamento in alluminio, lubrificazione a olio e un rapporto 8: 1 di trasmissione finale.
I tecnici della Chrysler sostenevano che questo motore, dal peso di 65 kg, potesse far superare alla Patriot i 320 km/h. L’idea originale di Sharp era poi quella di dividere l’unità motrice in 2 sotto unità che si occupassero ognuna di un asse, creando così una trazione integrale.

Il generatore presentava invece una doppia turbina con cuscinetti ad aria a struttura lamellare. Tale soluzione, derivata strettamente dai sottomarini dell’epoca, permise di evitare sistemi di refrigerazione del generatore: l’aria fredda veniva infatti risucchiata attraverso il generatore per raffreddarlo, si riscaldava e contribuiva ad alimentare la turbina.
Il generatore era alimentato da gas naturale liquefatto (GNL), stoccato a -161 °C in appositi serbatoi progettati e costruiti da CEXI (Cryogenic Experts, Inc.) grazie all’esperienza maturata con la NASA. Il GNL “permise” anche di risparmiare l’uso di radiatori: i circuiti elettrici producevano grandi quantità di calore che, invece di essere dissipate, furono utilizzate per gassificare il combustibile prima di essere immesso nella turbina.
Il funzionamento del sistema non era continuo, infatti si accendeva solo per mantenere bilanciato il livello di energia tra batteria e unità motrice. Siccome poi non era il motore a combustione a trasmettere trazione, questo poteva funzionare a regime costante ottimizzando i consumi di GNL.

Non abbiamo ancora nominato chi si è occupato di progettare e costruire il generatore perché è stato motivo di scontro. Ian Sharp aveva pensato inizialmente alla Williams Engineering, specializzata in generatori a turbina per missili balistici, salvo poi virare verso Allied Signal. Questa azienda stava infatti sviluppando la turbina ad aria lamellare di cui abbiamo parlato per l’utilizzo sugli elicotteri militari.
La fornitura era già stabilita e il generatore era perfettamente bilanciato tra dimensioni, potenza e peso, quando gli alti dirigenti di Chrysler fermarono tutto. Preferirono infatti rivolgersi alla SatCon, meno esperta in generatori a turbina ma già nella lista dei fornitori del costruttore di Detroit: la scarsa voglia di sobbarcarsi le lungaggini delle operazioni per aggiungere un nuovo fornitore fecero optare per un generatore meno prestante. Oltre al fatto che lo staff addetto alla progettazione e alla manutenzione del sistema non era lontanamente paragonabile per quantità a quello fornito dalla Allied Signal.
Sulla Patriot fu alla fine montato un generatore a metano con turbina a doppia bobina composta da 2 alternatori, con un intercooler posizionato tra i compressori a bassa e alta velocità e raffreddamento ad acqua. La turbina raggiungeva 100.000 giri/min ad alta velocità e 50.000 giri/min a bassa velocità. L’accensione era a punto singolo, mentre gli alternatori erano a induzione alternata trifase. Il tutto era costruito in materiali compositi, ceramica, titanio e acciaio inossidabile per un peso di 85 kg.
Non fu l’unico dissidio tra Sharp e gli alti dirigenti Chrysler. Questi infatti rivendicarono sempre di più come loro il merito di un’idea tanto futuribile quanto profittevole (immaginando gli usi nella produzione di serie dei decenni a venire). L’allontanamento di Sharp fu solo l’ultimo capitolo di intromissioni che portarono ad un impoverimento tecnico e al successivo abbandono del progetto Patriot.

Tranquilli, non ci siamo dimenticati della batteria a volano. L’abbiamo lasciata per ultima proprio perché fu lei a dare il colpo di grazia al prototipo. Il volano si occupava, come anticipato, di assorbire energia durante la frenata, accumularla nella batteria e trasferirla al motore elettrico durante l’accelerazione. Esattamente come sull’Audi R18 e-tron quattro e sulla Toyota TS040 Hybrid, avrebbe permesso di ridurre il consumo di freni e carburante (il generatore si sarebbe dovuto azionare più di rado), con quindi meno pit stop e più possibilità di vincere la Le Mans Performance Index, classifica premiante l’auto più parca.
A questo doveva servire il sistema da 520 kg alloggiato sotto vuoto: poteva girare fino a 58.000 giri/min sul suo attacco cardanico. Il motore aveva magneti permanenti trifase al neodimio di ferro-boro, disposti in un array di Halbach. Il bordo e l’alloggiamento erano invece in fibra di carbonio, con cuscinetti meccanici.
Il volano si rivelò però l’anello debole, risultando troppo fragile. Rinforzarlo avrebbe significato appesantirlo troppo e andare quindi incontro a sanzioni regolamentari per limiti di massa superati.

I test fallimentari che seguirono la progettazione fecero cadere nel dimenticatoio la Chrysler Patriot, nonostante una spinta mediatica molto forte nei mesi precedenti alla gara sul Circuit de la Sarthe.
Dal progetto però nacque qualcosa di buono. Per esempio molti degli spunti della Patriot furono ripresi nel 2012 all’alba dell’era ibrida della F1. Ma soprattutto fu il telaio ad avere un seguito. Non tanto da quanto costruito in Inghilterra da Reynard per competere nella nuova classe World Sports Car (WSC) co-concepita dalla FIA. Piuttosto dalla collaborazione che si costituì tra gli inglesi e la J&P che insieme svilupparono il 90% della prima Dodge Viper da corsa, incluso l’intero pacchetto aerodinamico. Ma questa è un’altra storia…

Speriamo vi sia piaciuta l’inaspettata storia di oggi. Se però siete fan della casa di Stoccarda non preoccupatevi, la Porsche 919 vi aspetta nella prossima puntata di #RacingFuels!
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– la Squadra Storie SCL

#RacingFuels – Gli specialisti dell’ibrido alla conquista del WEC

26/11/2017

Avrete sicuramente sentito o visto almeno una volta l’onnipresente pubblicità delle auto ibride di un particolare costruttore giapponese. Talmente fiero della propria tecnologia da non cercare per lei una denominazione fantasiosa o evocativa, semplicemente e orgogliosamente l’ha integrata nel suo stesso nome: Toyota Hybrid.
Cosa sta dietro questa mossa? Pura strategia di marketing o c’è anche l’arrosto oltre al fumo? Vediamolo in questo appuntamento con #RacingFuels dedicato alla Toyota TS040 Hybrid.

La vettura del Sol Levante non è stata la prima a tentare la strada ibrida con trazione integrale, come abbiamo raccontato parlando dell’Audi R18 e-tron quattro. Anche in casa Toyota non è stata la primogenita, derivando strettamente dalla TS030 Hybrid della stagione 2013 ed essendo ispirata dalla Supra HV-R vincitrice nel 2007 della 24 Ore di Tokachi. Ciò che l’ha distinta è stato invece l’aver interrotto l’egemonia nel WEC proprio della casa dei quattro anelli, con una stagione 2014 da protagonista assoluta.
Vettura di rottura fin dal propulsore: l’unità elettrica non era accoppiata ad un diesel bensì ad un benzina, più tradizionale nel Motorsport: si trattava infatti di un 3.7 l aspirato con architettura ad 8 cilindri a V di 90°. Dotato di 4 valvole per cilindro, distribuzione a doppio albero a camme in testa e iniezione diretta della benzina, fu studiato in stretta collaborazione con i tecnici della Total per ottimizzarne l’efficienza tramite appositi lubrificanti. La potenza non venne però trascurata, con l’unità a combustione capace di produrre 520 CV.
I nuovi regolamenti del campionato Endurance 2014 prevedevano strette sui consumi, che dovevano ridursi di circa il 25% rispetto alla stagione precedente. Fondamentale fu quindi l’apporto del sistema ibrido, composto da un motore-generatore AISIN AW sull’asse anteriore e da un’unità DENSO sul retro. Durante la fase di decelerazione, i motogeneratori applicavano la forza frenante in combinazione con i freni meccanici tradizionali per raccogliere energia, poi trasferita tramite inverter (AISIN AW nella parte anteriore, DENSO nella parte posteriore) al super-condensatore NIssHINBO. Durante l’accelerazione invece il motore / generatore invertiva la sua funzione, agendo come un motore per erogare un surplus di potenza di 480 CV.
Grazie quindi a questa accoppiata elettrico- termico, sviluppata dalla Motor Sports Unit Development Division di Higashifuji, la TS040 Hybrid poteva così vantare 1000 CV a fronte di consumi record.

Per raggiungere un’efficienza da campionessa contribuirono naturalmente anche il peso e l’aerodinamica. Il telaio, monoscocca alveolare in fibra di carbonio e alluminio, fu sviluppato e prodotto in Germania dalla TOYOTA Motorsport GmbH di Colonia. Rappresentava un’evoluzione importante della TS030 HYBRID e comprendeva una larghezza massima ridotta di 10 cm e una serie di elementi di sicurezza introdotti. Le dimensioni si attestavano quindi a 4.650 x 1.900 x 1.050 mm, con un peso di 870 kg inferiore di 45 kg rispetto alla TS030 HYBRID.
Grande attenzione fu prestata ai flusso d’aria attorno all’auto e in particolare nel sottoscocca, sia per ridurre la resistenza aerodinamica e migliorare il risparmio di carburante, sia per aumentare la deportanza e quindi l’aderenza per compensare gli pneumatici di 5 cm più stretti rispetto al 2013. L’approfondito studio nelle gallerie del vento all’avanguardia di TMG ha portò a forme aerodinamicamente efficienti oltre che incredibilmente leggere, grazie anche a design e processi di produzione avanzati.

La simulazione intensiva e il lavoro di calcolo di TMG perfezionarono la TS040 HYBRID utilizzando la tecnologia hardware-in-the-loop, che testa i singoli componenti sulla base di dati raccolti su circuiti reali e di potenti calcolatori. Tali tecniche all’avanguardia si rivelarono significativamente più efficienti rispetto ai test su pista, consentendo agli ingegneri TMG di ottimizzare continuativamente tutti gli aspetti del telaio e del lay-out più a lungo rispetto ai rivali che facevano affidamento esclusivamente sui metodi tradizionali. Non furono comunque trascurati i cari vecchi test in pista, con oltre 18.000 km percorsi in giro per l’Europa.

La TS040 Hybrid fu affidata a 2 equipaggi: il n° 7 (Alex Wurz, Stéphane Sarrazin e Kazuki Nakajima) e il n° 8 (Anthony Davidson, Nicolas Lapierre e Sébastien Buemi). L’esordio alla 6 Ore di Silverstone fu il migliore possibile, con la n° 8 vincitrice appena davanti alla n° 7. Alla 6 Ore di Spa Davidson, Lapierre e Buemi bissarono il successo tracciando la via per la stagione 2014.
Alla 24 Ore di Le Mans Nakajima ottenne la pole sula vettura n° 7, ma il suo equipaggio soffrì un ritiro in gara a causa di un problema elettrico durante la notte. La n° 8, coinvolta in un incidente nelle prime fasi della gara, venne costretta a rimontare: la tenacia fu comunque ripagata da un 3° posto alle spalle delle Audi, mantenendo inoltre la leadership in campionato.
Testa della classifica definitivamente conquistata in Bahrain, al penultimo appuntamento della stagione, quando la coppia Davidson-Buemi (Lapierre uscì dall’equipaggio dopo la gara di Austin) conquistò matematicamente la classifica piloti, pur dovendosi in quel caso accontentare di un 8° posto per problemi ad un alternatore. Nella chiusura della stagione a Interlagos anche il titolo costruttori finì nella bacheca Toyota.

La stagione successiva la TS040 Hybrid si presentò praticamente invariata, pagando pegno nei confronti delle rivali marchiate Audi e Porsche. Si era già comunque guadagnata una pagina della storia del Motorsport, così come qui su Sports Car Legends. Alla prossima, quando vedremo il ritorno di Porsche nell’Endurance, sempre qui a #RacingFuels!

Qui sotto puoi gustarti la galleria di immagini della Toyota TS040 Hybrid.
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#RacingFuels – Un’automobile, due nature

11/11/2017

Nella scorsa puntata di #RacingFuels abbiamo accennato all’Audi R18, punto di svolta per la tecnologia ibrida. Il concetto di motore elettrico a supporto dell’unità motrice a gasolio, introdotto dalla Peugeot 908 HY ed evoluto su quella che sarebbe dovuta essere la brillante 908 Hybrid4, sboccia in tutta la sua efficacia nel corso della carriera della R18. Vediamo come!

Tutto nacque con l’Audi R18 TDI, erede di quella R15+ TDI quasi frenata dai regolamenti della sua epoca. Solo pochi anni più tardi invece, il complesso e approfondito studio aerodinamico compiuto dalla casa dei quattro anelli tornò utile per uno step evolutivo notevole.
La R15+ presentava l’abitacolo scoperto, caratteristica ereditaria per i prototipi Audi sin dai tempi della R8. La R18 passò invece all’abitacolo chiuso, non solo per ovvie ragioni aerodinamiche (meno turbolenze nella zona della testa del pilota), ma anche perché i nuovi regolamenti sul rifornimento ne avevano fatto lievitare i tempi, rendendo praticamente inutile avere un rapido cambio piloti. Inoltre le ultime controindicazioni dell’abitacolo chiuso, ovvero le elevate temperature interne e la scarsa visibilità durante il maltempo, erano ormai state superate grazie all’esperienza nel campionato DTM con l’A4, ma anche con la R8C e la Bentley EXP Speed 8 del 2003, quest’ultima facente parte nel 2003 del gruppo Volkswagen e portata in pista proprio grazie al supporto di Audi Sport.

Una delle principali novità fu il telaio monoscocca in fibra di carbonio, costruito dalla Dallara, non più diviso in 2 metà ma sfornato da un blocco unico, fatto che ne riduceva il peso aumentandone al contempo la rigidità. Sempre in favore della leggerezza anche la carrozzeria fu “liberata” da circa 40 kg in eccesso.
Tutto ciò portò ad una vettura che stava ben al di sotto dei 900 kg minimi previsti dal regolamento, permettendo l’aggiunta di zavorre in punti strategici per ottimizzare la distribuzione dei pesi. A tale obiettivo contribuivano anche le carreggiate anteriore e posteriore di uguale dimensione e il sistema di illuminazione completamente a led.
Attenzione per il peso e aerodinamicità che si sposavano alla perfezione nel sistema di aerazione dell’abitacolo: flussi d’aria pensati ad hoc resero superfluo l’uso del climatizzatore, con l’appannamento del parabrezza impedito da semplici resistenze.

Veniamo quindi al motore, l’ultimo TDI a spingere in solitaria una vettura della classe LMP1. Si trattava di un V6 da 3.7 l, con angolo tra le bancate di 120°, distribuzione a 4 valvole per cilindro, 2 alberi a camme per bancata e iniezione diretta del gasolio.
Era dotato di un unico turbocompressore Garrett (Honeywell Turbo Technologies) TR30R a geometria variabile: tale soluzione, in contrasto col passato e con la concorrenza che si avvaleva di 2 turbo, fu resa possibile dall’aria ad alta pressione che entrava in una presa d’aria al di sopra dell’abitacolo e arrivava quindi già precompressa alla singola turbina, che aveva una pressione massima di esercizio di 3 bar. Un esempio di risparmio di peso con la minima perdita di prestazioni, ridotte invece dalla flangia in aspirazione da 47,4 mm di diametro.
Ulteriore particolarità di questo nuovo motore era è l’inversione del lato di aspirazione e scarico delle testate: mentre prima turbocompressori e scarichi erano esterni al motore con l’aspirazione interna alla V formata dai cilindri, ora il turbocompressore veniva montato centralmente e gli scarichi sono tra la V dei cilindri, mentre l’aspirazione è esterna. Si creava perciò il sistema chiamato da Audi “a cuore caldo”.
Il suono che derivava da questo propulsore era descritto come molto particolare ,assomigliava più a un mormorio che a un rombo siccome i tecnici tedeschi reputavano il rumore solo uno spreco di energia. Spreco che deve essere stato ridotto al minimo visti i circa 550 CV di potenza e la coppia massima di oltre 850 Nm.

Con questo pacchetto di innovazioni la R18 TDI debuttò alla 6 Ore di Spa-Francorchamps del 2011, conquistando un 3° posto con il trio Allan McNish-Rinaldo Capello-Tom Kristensen.
Le potenzialità del mezzo si palesarono alla 24 Ore di Le Mans dello stesso anno. Una gara spettacolare, ricordata tra le più combattute di sempre: 2 delle 3 Audi in gara andarono ko per incidenti dovuti a incomprensioni durante dei doppiaggi, lasciando la n°2 di Marcel Fässler, André Lotterer e Benoît Tréluyer a battagliare contro le per oltre metà gara Peugeot. Alla fine, dopo aver essere partiti dalla pole position, la vettura dei quattro anelli vinse con il risicatissimo margine di 13,8 s, 3° distacco minimo di sempre nella storia di Le Mans dopo quello del 1966 tra le Ford GT40 di Amon-McLaren e Miles-Hulme, arrivate per ordine di scuderia in parata, e quello datato 1969 tra la Ford GT40 di Ickx-Oliver e la Porsche 908 di Herrmann-Larrousse.

Nonostante queste vittorie la vera storia della R18 iniziò nel 2012. Durante la progettazione l’ossessione per il peso, per la compattezza del motore e per la distribuzione dei pesi non furono solo dettate da raggiungere nuove vette prestazionali. Nella testa dei tecnici teutonici balenava già l’idea di introdurre un’unità motrice elettrica alla ricetta per muovere l’asse anteriore, con il motore diesel che scaricava la sua esuberanza sulle ruote posteriori: la nuova soluzione ibrida avrebbe permesso di riproporre, in una veste diversa e innovativa, la storica trazione integrale Quattro che tante soddisfazioni diede a Audi nel Motorsport degli anni ’80.

Il sistema ibrido era composto, oltre che dal V6 TDI, da un sistema di accumulo dell’energia con batteria a volano fornito da Bosch, infine da un motore elettrico in grado di trasmettere fino a 500 kJ di energia alle ruote anteriori, tra due fasi di frenata e al di sopra dei 120 km/h come prescritto dal regolamento.
Ma come funzionava? Un riduttore epicicloidale adattava il rapporto di trasmissione in base all’accelerazione e alla frenata. I due assi della vettura, azionati indipendentemente uno dall’altro, venivano sincronizzati da strategie di controllo elettroniche, completamente automatiche e senza intervento alcuno da parte del pilota.
Due i parametri regolanti l’intera procedura di ricarica, detta anche fase di recupero d’energia: la decelerazione della vettura, quindi l’intensità della frenata stessa e il livello di carica della batteria. Il processo di rilascio di energia, chiamato fase di boost, dipendeva si dal regolamento ma anche dalla strategia di gara scelta, dal movimento del pedale del gas e dall’accelerazione del veicolo.

Il resto del veicolo fu evoluto e perfettamente identico tra la versione ibrida, chiamata e-tron quattro, e quella esclusivamente a gasolio, la ultra. Le modifiche riguardarono il cambio sequenziale a 6 raporti Xtrac, azionato elettricamente e non più da un sistema pneumatico, con scatola del cambio in fibra di carbonio e materiali compositi con inserti in titanio, frizione in carbonio, sterzo elettromeccanico e aggiustamenti alla monoscocca a nido d’ape in fibra di carbonio e alluminio.
Come turbocompressore fu scelto un singolo Garrett Honeywell Turbo Technologies con pressione massima limitata a 2,8 bar, centralina Bosch MS24, flangia d’aspirazione da 45,8 mm di diametro, serbatoio da 60 l (58 l per l’ibrida) anziché 60 l, cerchi OZ forgiate in magnesio calzanti pneumatici Michelin Radial 360/710 R18 all’anteriore e 370/710 R18 al posteriore.

In tale configurazione sia la R18 e-tron quattro che la R18 ultra scesero in pista per la stagione 2012. La versione ibrida pilotata da Benoît Tréluyer, Marcel Fässler e André Lotterer vinse l’89^ edizione della 24 Ore di Le Mans stabilendo due primati: 1^ vittoria di un’auto ibrida e 1^ vittoria di una vettura a trazione integrale nella celebre gara di durata. La R18 e-tron quattro a fine anno conquistò anche il Campionato del Mondo Endurance.

L’evoluzione della vettura non si arrestò. La e-tron quattro divenne la versione su cui puntare e nel 2013 bissò sia la vittoria alla Sarthe che il Mondiale.
Nel 2014 il regolamento cambiò e il V6 TDI beneficiò di un’aumento di cubatura fino a 4.0 l e di turbocompressore elettrico. Importanti gli aggiornamenti al sistema di accumulo a volano e un sistema di recupero del calore: l’energia termica dallo scarico veniva catturata e poteva trasmettere energia al turbocompressore o all’accumulatore.
Audi decise poi di non correre con il secondo sistema di recupero dell’energia, noto in F1 come MGU-H, siccome i progettisti lo consideravano un inutile rischio a fronte di un aumento irrisorio delle prestazioni. L’aerodinamica venne fortemente riveduta secondo le nuove regole: la larghezza ridotta di 100 mm, l’altezza aumentata di 20 mm, nuovo set di ali anteriori e diffusore posteriore rimosso.
La monoscocca di sicurezza venne rafforzata con materiale aggiuntivo. Anche ruote collassabili e altre strutture a deformazione controllata furono aggiunte, così come una marcia in più al cambio che diventò a 7 rapporti.
Una retroilluminazione a raggi laser blu con una lente a cristallo di fosforo giallo integrò i fari a LED. Da segnalare anche piccole ottimizzazioni della visibilità e dell’ergonomia per facilitare il compito dei piloti.
La stagione 2014 vide mantenuto il dominio a Le Mans, ma Audi dovette lasciare a Porsche il titolo del Campionato.

Nel 2015 Audi si concentrò sul migliorare il pacchetto motore elettrico-accumulatore, con il primo che aumentò la potenza espressa e il secondo che poteva immagazzinare più energia. I risultati portarono però solo a piazzamenti e al 2° posto nel WEC.
Nel 2016 i cambiamenti furono invece più profondi. Aerodinamicamente si notavano il musetto strettamente parente di quello delle F1, retrovisori integrati e modifiche al corpo vettura. L’accumulatore a volano fu sostituito da batterie agli ioni di litio. La stagione sportiva, terminata con un 2° posto nel Mondiale e molti piazzamenti a podio, fu segnata dalla squalifica a Silverstone, dopo aver vinto la gara, per irregolarità al fondo vettura, oltre che dall’annuncio del ritiro dalle competizioni a causa degli strascichi del dieselgate, fatti di salate multe da pagare.

Ecco quindi la capostipite dell’era ibrida, la vettura che ha dato il via ad un’evoluzione tecnica tuttora in atto e mai doma. Vedremo nella prossima puntata di #RacingFuels chi sono state le agguerrite e vincenti avversarie della R18!

Qui sotto puoi gustarti la galleria di immagini delle Audi R18 TDI, e-tron quattro e ultra.
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#RacingFuels – Gli ultimi botti del diesel

04/11/2017

Il gasolio da corsa ha ormai raggiunto il suo apice nel corso della nostra trattazione. In questa nuova puntata di #RacingFuels scopriremo quelle auto che hanno rappresentato la transizione verso una nuova epoca, soprattutto nella specialità Endurance. Cominciamo allora questo ultimo capitolo sul diesel!

L’Audi R10 TDI aveva raccolto vittorie e gloria sui circuiti di tutto il mondo, ma era giunto il momento di trovarne una degna erede per contrastare la sempre più agguerrita Peugeot 908 HDi FAP. Nacque dunque nel 2009 il progetto Audi R15 TDI: progressiva nel nome ma totalmente differente dalla progenitrice. I tecnici di Ingolstadt partirono da un foglio bianco in modo da sviluppare maggiormente tutto il pacchetto attorno al motore, che aveva invece “assorbito” la maggior parte delle cure nel progetto R10.
In primis fu migliorata l’aerodinamica, ispirati soprattutto dall’esperienza nel DTM che aveva portato a complesse ed efficaci soluzioni. L’aria infatti non correva semplicemente attorno al corpo vettura, ma lo attraversava: aumentò di conseguenza la portanza senza compromettere la penetrazione, vantaggio questo che si rivelerà chiave specie negli stretti circuiti delle American Le Mans Series. Caratteristici erano un largo musetto rialzato con paratie superiori e sfoghi d’aria, le pance laterali dotate di numerosi sfoghi d’aria per smaltire il calore dei radiatori del motore, una parte posteriore molto bassa e rastremata e i collettori di scarico del motore che fuoriuscivano direttamente da una larga apertura rettangolare sul cofano motore.
La crisi economica mise però i bastoni tra le ruote dei progettisti, riducendo le finanze per i test e portando la nuova vettura praticamente impreparata all’avvio della stagione 2009. Altro problema furono le insistite lamentele di Peugeot circa l’ala regolabile che la R15 presentava nei pressi di una presa d’aria sul muso, giudicata irregolare dai francesi. I regolamento ACO fu perciò cambiato nell’inverno del 2009, portando ad un’aerodinamica più convenzionale (senza “canali” d’aria passanti attraverso l’auto) dal 2010 in poi, su quella che venne ribattezzata Audi R15+ TDI. Tutto il lavoro di sviluppo sui flussi dell’aria non si rivelò tuttavia inutile. La R15 sarebbe stata concettualmente alla base della successiva R18, vettura rivoluzionaria di cui vi parleremo nel prossimo capitolo della rubrica.
Per quanto riguarda la telaistica, non ci furono grosse evoluzioni rispetto alla R10: monoscocca in fibra di carbonio con struttura a nido d’ape in alluminio, rivestita da una carrozzeria in materiale composito. Le dimensioni rimasero invariate a causa del regolamento, con l’affinamento che riguardò principalmente la distribuzione dei pesi.
Il cuore pulsante della nuova creatura dei quattro anelli era un 5.5 l V10 diesel, con angolo tra le bancate di 90°. 4 valvole per cilindro, 2 turbocompressori Garrett con pressione massima di 2,75 bar, 2 flange in aspirazione da 37,9 mm ciascuna, filtri antiparticolato sui collettori di scarico e centralina Bosch gli altri aspetti degni di nota del motore. La scelta di diminuire la cilindrata fu proprio per ridurre il peso, ma anche per poter sistemare il propulsore in una zona il più stretta possibile per lasciar spazio alle prominenti appendici aerodinamiche. Tuttavia gli oltre 600 CV di potenza e una coppia massima di 1.050 Nm non fecero rimpiangere il predecessore, grazie soprattutto ad un maggiore reattività alle sollecitazioni. Nel 2010 il regolamento tecnico ACO ridusse le flange 37,5 mm e la pressione di sovralimentazione ad un massimo di 2,59 bar, variazioni che tuttavia non modificarono la potenza dell’unità motrice.
Sempre per ottimizzare le masse, l’alimentazione elettrica fu affidata a batterie agli ioni di litio, più leggere di quelle della R10 oltre che capaci di fornire voltaggi più alti
La trasmissione adottava una frizione multidisco in carbonio, accoppiata ad cambio sequenziale a 5 rapporti con attuazione elettropneumatica prodotto in collaborazione con XTrac.
La trazione posteriore scaricava tutta la potenza sulle ruote posteriori da 18” calzanti pneumatici Michelin. Uguali le specifiche all’anteriore
Le sospensioni presentavano uno schema a doppi triangoli sovrapposti con sistema push rod, con molle e ammortizzatori regolabili tramite barre di torsione.
Lo sterzo era a cremagliera e dotato di servosterzo elettrico, mentre l’impianto frenante della Brembo utilizzava dischi carboceramici con pinze freno a 6 pompanti.
Tutto ciò portava il a pesare non meno di 930 kg, tenendo conto anche del serbatoio da 81 l.

Come anticipato Audi si presentò al via della stagione 2009 con qualche ritardo di preparazione, fatto che non impedì vittoria (con equipaggio Rinaldo Capello, Tom Kristensen e Allan McNish) e anche 3° posto al debutto alla 12 Ore di Sebring.
A Le Mans uscirono però allo scoperto tutti i problemi. Dopo anni di dominio quasi incontrastato, la casa di Ingolstadt si dovette accontentare del gradino più basso del podio, sempre con il trio Capello-Kristensen-McNish, dietro a 2 Peugeot 908. Stesso epilogo alla Petit Le Mans di Road Atlanta, ultima gara disputata dalla R15 nel 2009.
Dopo aver appreso la lezione del 2009, Audi sottopose la R15+ ad un rigoroso programma di test prima di Le Mans. A causa delle modifiche tardive della regolamentazione di cui abbiamo parlato in precedenza, l’auto non era pronta per correre il tradizionale avvio stagionale a Sebring. Il team continuò a girare e provare su vari circuiti, tra cui Monza, Paul Ricard e su 2 lunghi tratti dell’Eurospeedway prima di fare il suo debutto.
Il 2010 si aprì quindi con la 8 ore di Le Castellet, dove Capello e McNish vinsero con ampio margine stabilendo anche il giro più veloce. Fu l’inizio di una stagione molto più combattuta con Peugeot. Se i francesi si imposero alla 1000 km di Monza e a Road Atlanta, i tedeschi poterono vantare una meravigliosa tripletta alla 24 Ore di Le Mans: 1^ la n° 9 di Mike Rockenfeller, Romain Dumas e Timo Bernhard, 2^ la n° 8 di Marcel Fassler, Andrè Lotterer e Benoit Treluyer e 3^ la n° 7 di Dindo Capello, Tom Kristensen e Allan McNish. I vincitori della gara effettuarono in tutto 397 giri, stabilendo così il nuovo record sulla distanza con 5.410 km alla media di 225 km/h. Il precedente primato (battuto anche dalla seconda e dalla terza vettura classificata) era stato conseguito nel 1971 da un’altra vettura di una famosa casa tedesca, la celebre Porsche 917.
La carriera della R15+ terminò con un  4° e un 5° posto alla 12 Ore di Sebring del 2012, gara disputata in attesa di ultimare le nuove Audi R18.

Parlando della rivalità con Peugeot, non si può parlare di un’innovazione apportata alla 908 HDi FAP che di fatto preannunciava la nuova e successiva era dell’Endurance. La casa del Leone nel settembre 2008, in occasione della 1000 km di Silverstone, presentò la versione ibrida del suo prototipo, la 908 HY.
La vettura era equipaggiata da 10 batterie, composte da 600 celle agli ioni di litio, che si ricaricavano grazie ad un sistema di recupero dell’energia cinetica durante le fasi di frenata, simile al KERS delle F1. L’energia accumulata azionava poi un motore elettrico da 60 kW (circa 80 CV): la 908 Hybrid poteva così muoversi in modalità totalmente elettrica (ad esempio per percorrere la corsia box), con l’ausilio del solo motore V12 turbodiesel oppure in modalità ibrida. In quest’ultima configurazione i vantaggi consistevano in 80 CV di spinta supplementare per 20 s, utili nei sorpassi così come nel ridurre i consumi di gasolio (tra il 3% ed il 5%).
Progettata in previsione di apertura del regolamento verso prototipi ibridi, non fu mai schierata in gara siccome questo tipo di prototipi non portava allora punti validi per la classifica. La situazione cambiò nel 2011, quando l’affinamento di questa soluzione portò alla nascita della Peugeot 908 Hybrid4. Quest’ultima creatura di Sochaux non vide mai la pista in gare ufficiali, bloccata prima dalla volontà di sviluppare la 908 tradizionale e poi dal ritiro della casa francese dalle competizioni nel 2012.

La strada sembrava quindi tracciata, con il futuro del diesel nelle competizioni legato all’affiancamento a unità elettriche. Prima però di vedere come l’Audi R18 prima e la R18 e-tron poi renderanno realtà tutto ciò, vogliamo celebrare 2 ultimi record dei propulsori a gasolio duri e puri. Stabilire nuove vette di velocità anche con le creature di Rudolf Diesel non fu cosa relegata agli anni ’60 e ’70. La JCB Dieselmax e il Volvo Iron Knight sono esempi più recenti di mezzi spettacolari, progettati e costruiti per prestazioni folli.

La JCB, azienda britannica specializzata in macchine per l’edilizia, l’agricoltura e la demolizione, diede il via ad un progetto molto lontano dai suoi standard con la costruzione di un prototipo per il record di velocità al suolo.
Innanzitutto 2 motori JCB444 di serie furono preparati dalla Ricardo fino a raggiungere i 1500 CV di potenza (750 CV ciascuno). I 2 propulsori, da 5 l e 4 cilindri ciascuno, erano dotati di turbocompressori a 2 stadi che lavoravano ad una pressione massima di 6 bar, oltre che a presentare intercooler e aftercooler.
Grande attenzione fu naturalmente rivolta alla parte aerodinamica, con la consulenza della MIRA. Avvalendosi di studi computazionali sulla fluidodinamica, i tecnici ottennero un coefficiente di penetrazione Cx di 0.147 e un coefficiente di attrito aerodinamico CdA di 0.129 m².
Sempre nell’ottica di una collaborazione tutta britannica, la Visioneering fornì il telaio in prima persona e il sistema elettrico tramite una sua controllata. Tenendo conto anche del serbatoio da soli 9 l, posizionato dietro al pilota, la vettura pesava meno di 2.700 kg.

Il 20 Luglio 2006 iniziarono i test sulla pista RAF di Wittering, con una potenza di 600 CV per poter testare progressivamente il telaio e i motori. Il 30 Luglio furono raggiunti i 320 km/h, mentre due giorni dopo il prototipo fu smontato e trasportato all’aeroporto di Wendover nello Utah (USA), ex casa del B-29 Enola Gay, famoso per lo sgancio della prima bomba atomica 8 agosto. Il 13 Agosto, dopo diversi giorni di riconfigurazione e riesame della vettura, l’ex pilota RAF Andy Green salì a bordo della Dieselmax debuttando ufficialmente alle Bonneville Salt Flats durante la Speed Week, raggiungendo la velocità media di 510 km/h e battendo il record del SCTA-BNI per uno Streamliner Diesel ‘AA / DS’.
Il 22 Agosto 2006, dopo essere stato nuovamente dotato di 750 CV con le versioni “LSR” dei motori JCB444, la JCB Dieselmax infranse il record ufficiale FIA di velocità su suolo per motori diesel, raggiungendo la pazzesca velocità di 529 km/h. Il giorno dopo, il 23 Agosto, la vettura migliorò il suo stesso record, arrivando a 563,418 km/h sulla distanza di 1 miglio. Prima di raggiungere queste velocità, la Dieselmax fuspinta da un JCB Fastrac, fino ad inserire la 1^ marcia a 48 km/h. Il record precedente era di 380 km/h, stabilito dall’americano Virgil Snyder con lo streamliner Thermo King il 25 agosto 1973.

Anche i camion si sono difesi bene nella velocità pura. Ricordando il mito del DAF 95 TurboTwin, non ci è difficile credere alle strepitose prestazioni che il Volvo Iron Knight ha mostrato nel corso del 2016.
Questo bestione da kg poteva contare su un motore diesel da 13 l montato in posizione centrale, dotato di 4 turbo e intercooler raffreddato ad acqua. La potenza sviluppata di 2.400 CV e la coppia massima di 6.000 Nm venivano trasferite alle ruote posteriori tramite un cambio I-Shift a doppia frizione.
Grazie anche ad un’aerodinamica affinata, l’Iron Knight è stato capace di ottenere ben 2 record mondiali: i 500 m in 13,71 s con una velocità finale di 131,29 km/h e i 1000 m in 21,29 s toccando i 169 km/h, sempre con il campione europeo del Truck Racing Championship, oltre che detentore di altri 5 record di velocità, Boije Ovebrink. Anche se non era nei piani, il camion svedese ha raggiunto comunque nei test i 276 km/h, grazie anche ad un’accelerazione da 0 a 100 km/h in 4,6 s.

Abbiamo quindi visto fin qui di cosa sono stati capaci da soli i diesel nelle competizioni. Ma il momento di un cambio epocale era nell’aria: come si è comportata nelle competizioni l’accoppiata diesel-elettrico? Per scoprirlo non ti resta che continuare a seguire #RacingFuels!
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#RacingFuels – La “tedesca di Barcellona” dominatrice del WTCC

21/10/2017

Nel 2007 l’accoppiata motore a gasolio – prototipi era ormai assodata e sinonimo di vittoria nei campionati endurance. Ma per quanto riguarda le gare delle auto derivate dalla serie? L’ultimo esempio era stato quello della BMW 320d E36 nel 1998, ma sempre dalla Germania, passando per la catalogna, giunse il successivo capitolo della storia. Oggi qui a #RacingFuels vi racconteremo della SEAT Leon TDI, che scosse il WTCC a tal punto da spingere a cambiarne il regolamento.

Il Gruppo VAG aveva ormai messo i diesel al centro del proprio universo dopo le prestigiose e storiche imprese dell’Audi R10 TDI. Una delle numerose case automobilistiche controllate, la spagnola SEAT, gareggiava in quegli anni nel Campionato Mondiale Turismo (WTCC) con la 2^ generazione della berlina Leon. Fu proprio la compatta catalana ad essere scelta per sperimentare il propulsore a gasolio in competizioni turismo, oltre a promuovere la sigla TDI con una vettura che trovava nei concessionari la sua diretta controparte.
Il progetto non nacque da zero, siccome dal 2006 SEAT Sport gareggiava nel WTCC con la versione a benzina della Leon, per cui la base telaistica e meccanica venne solamente adattata. Il cuore e novità è perciò stato il 2.0 TDI, preso dalla normale produzione di serie e opportunamente modificato dai tecnici di Martorell. Leggendo la scheda tecnica non saltano all’occhio spiccate differenze rispetto all’unità stradale: 1998 cc di cilindrata, 4 cilindri in linea con 16 valvole, doppio albero a camme in testa. Persino alesaggio e corsa rimasero immutate, rispettivamente 81×95,5 mm. A trasformare questa berlina familiare in un’auto da corsa non furono infatti accorgimenti al blocco motore a alla testa del cilindro, ci pensarono invece il nuovo turbocompressore e la diversa scatola del cambio, oltre alla parte frontale che alloggiava l’intercooler più grande e nuove prese d’aria. Ecco quindi che, montato il filtro antiparticolato DOW Automotive, il 2.0 TDI arrivava a sfoderare 280 CV a 4.000 giri/min e 450 Nm di coppia a 2.500 giri/min.
Tale propulsore era poi accoppiato a un cambio Hewland sequenziale a 6 velocità con frizione a doppio disco.
La trazione anteriore contava su un differenziale autobloccante meccanico per scaricare a terra quanta più possibile della potenza generata, oltre ad aiutare nelle curve impostate con lo sterzo a cremagliera servoassistito.
Le appendici aerodinamiche, applicate al telaio irrigidito e dotato di roll cage, rendevano la vettura lunga 4.330 mm e larga 1.849 mm, con un passo di 2.600 mm.
Le sospensioni rispecchiavano lo schema già visto sulla Leon di serie, quindi McPherson all’anteriore e multilink al posteriore con tarature specifiche, ovviamente più basse, irrigidite e camber ottimizzato.
Il sistema frenante era composto da un doppio circuito idraulico, con davanti dischi autoventilanti di diametro 332 mm e pinze a 4 pistoncini, mentre dietro dischi pieni di diametro 280 mm e pinze a 2 pistoncini.
Tutto ciò portava il peso della Leon TDI WTCC ad un minimo di 1170 kg incluso il pilota. Da sottolineare come, per regolamento del campionato, l’ago della bilancia di una vettura diesel dovesse segnare 30kg di peso minimo in più rispetto alle omologhe a benzina: l’auto spagnola TDI risultava 35 kg più pesante della sorella TFSI, con i tecnici che cercarono di ovviare a tale discrepanza ridistribuendo i pesi e facendo fronte anche all’intercooler e al turbo alloggiati davanti all’assale anteriore che rischiavano di sbilanciare la vettura.

I risultati furono però già buoni e incoraggianti nei test. A detta dei tester Jordi Gené e Yvan Muller la notevole qualità del telaio permetteva di non rallentare troppo in curva, situazione in cui il peso maggiore si traduceva in trasferimenti di carico bruschi e maggior stress per gli pneumatici. Inoltre la coppia motrice al top dava i suoi frutti in uscita di curva e in rettilineo, rendendo la Leon veloce e reattiva al pedale del gas.
Il debutto in campionato avvenne alla 7^ tappa, prevista il 29 Luglio 2007 sul circuito svedese di Anderstorp. Sia Gené che Muller scesero in pista, con il primo che si posizionò 6° in griglia di partenza mentre il compagno si dovette accontentare della 14^ posizione. In Gara 1 i ruoli si invertirono, con il francese 6° al traguardo e lo spagnolo 18°. Il responso di Gara 2 fu invece più amaro, con Muller costretto al ritiro nonostante la partenza dalla 3^ posizione e Gené terminato 24° dopo il 18° posto in griglia.
L’occasione per rifarsi era già nella successiva tappa in Germania del 26 Agosto, che si rivelò storica per il team SEAT Sport e non solo. Se avete già letto il nostro dettagliato report sulla Race of Germany del 2007, saprete infatti che in Gara 1 Yvan Muller e la sua Leon n° 12 si aggiudicarono la 1^ vittoria di una vettura a gasolio nel WTCC.
Nel proseguo della stagione la Leon TDI contribuì al 2° posto nella classifica costruttori per SEAT e al 2° posto anche per Muller nella classifica piloti. Fu però dalla stagione dopo che l’auto spagnola dimostrò di poter entrare di diritto nella storia del Motorsport.

Nella stagione 2008 del WTCC infatti l’accoppiata Muller-Leon TDI si dimostrò costante, collezionando tra gli altri 3 vittorie e 6 podi che portarono all’accoppiata titolo piloti – titolo costruttori, neanche a dirlo i primi per SEAT e per un’auto motorizzata diesel.
Anche il secondo gradino del podio tra i piloti fu appannaggio della berlina catalana, con Gabriele Tarquini che se lo aggiudicò forte di 3 vittorie e 2 podi.
Gloria pure per le altre guide del team: Gené con 1 vittoria e 3 podi, Rickard Rydell con 2 vittorie e 5 podi e Thiago Monteiro con 2 vittorie. Insomma sembrava l’inizio di un’epoca di trionfi.

La stagione 2009 fu però scandita da continui cambi di regolamento, atti a ristabilire la parità tecniche fra le auto, caratteristica storica del WTCC, ormai spazzata via dalla supremazia del turbodiesel ispano-tedesco. Di gara in gara vennero modificate le pressioni del turbo consentite così come il numero massimo di giri per le vetture aspirate. Questa situazione indispettì SEAT che si sentiva svantaggiata in favore dei principali rivali di BMW, i quali correvano con la 320si a benzina.
Nonostante il dominio ottenuto anche quella stagione, con Tarquini campione, Muller “medaglia d’argento” e titolo costruttori in tasca, SEAT Sport decise di ritirarsi in forma ufficiale dal campionato, lasciando le Leon TDI in gestione al team SR Sport.

Pur con investimenti ridotti rispetto al 2009 ma ancora con il supporto tecnico della casa madre SEAT, il team SR Sport portò Tarquini a 5 vittorie in gara e al 2° posto finale nella classifica piloti. Perse però il confronto tra costruttori a favore del team Chevrolet, che da lì in avanti raccolse lo scettro di dominatore della manifestazione.
Nel 2011 la situazione non migliorò per la Leon TDI: passata nelle mani del team Sunred, fu utilizzata solo nelle prime 4 gare della stagione. La vittoria di Tarquini nella Gara 2 del Belgio fu quindi l’ultima, prima della sostituzione con la versione benzina motorizzata 1.6 TFSI.

Breve ma intensa l’avventura della SEAT Leon TDI WTCC, sufficiente però a rimanere nella memoria dei tanti Appassionati di automobilismo sportivo. Restano da narrare ancora alcune pagine di storia del diesel da competizione, seguiteci nel prossimo appuntamento con #RacingFuels per incontrare altri esempi di un primo decennio degli anni 2000 scoppiettante per i motori a gasolio!
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– la Squadra Storie SCL

#RacingFuels – I francesi del Leone raccolgono la sfida

30/09/2017

L’Audi R10 TDI vincitrice a Le Mans nel 2006 si assicurò un posto d’onore nella storia del Motorsport. Cosa resta fissato nelle menti degli Appassionati forse anche più dei trionfi? Le rivalità ovviamente: niente è infatti più entusiasmante di avversari che lottano fino all’ultima curva, una battaglia che parte tra i tecnici nella progettazione fino ad arrivare in abitacolo tra i piloti.
Se in un primo momento la R10 TDI si trovò senza concorrenti dirette, sia alla 24 Ore di Le Mans che nella Le Mans Series, poco dopo venne sfidata dall’ultima nata di una casa con il diesel da sempre radicato nella propria tradizione: stiamo parlando di Peugeot e della sua 908 HDi FAP, oggi sotto i riflettori di #RacingFuels!

Essendo il debutto della 908 HDi FAP datato 2007, si potrebbe erroneamente pensare che il progetto fosse nato come reazione all’exploit della R10 TDI del 2006. Le radici sono invece più profonde: già nell’estate del 2005 i tecnici francesi iniziarono a lavorare su un prototipo ad abitacolo chiuso per la classe LMP1, per poi presentarlo alla stampa nel Settembre 2006 in occasione del Salone dell’Auto di Parigi.
Proprio in questa scelta di non optare per un abitacolo aperto sta la prima grande differenza progettuale con la vettura tedesca. La 908 HDi FAP risultò quindi il primo prototipo con carrozzeria coupé a gareggiare nella maratona francese dopo la Bentley Speed 8, vincitrice a Le Mans nel 2003. I tecnici del Leone optarono per una soluzione chiusa anche per una questione di continuità con la progenitrice Peugeot 905, ma soprattutto in vista di alcune proposte tecniche annunciate dall’ACO nel 2006, che avrebbero previsto dal 2010 l’utilizzo esclusivo di coupé per la classe LMP1.
Ricordando quanto detto nella scorsa puntata, i progettisti tedeschi investirono il risparmio di peso per copertura e climatizzazione per compensare la differenza di massa tra il propulsore a gasolio e quelli a benzina. Peugeot fece invece valutazioni differenti, preferendo una maggior rigidità del telaio (grazie al montante posto sul parabrezza), un’aerodinamica ottimizzata e flange più larghe sui collettori di aspirazione: queste ultime misuravano infatti 40,3 mm contro i 39,9 mm della R10, ossia gli 0,4 mm in più concessi dal regolamento alle coupé per compensare l’energia assorbita dalla presa di forza alla fine del cambio che azionava il compressore del climatizzatore, elemento obbligatorio nei coupé al fine di non superare i 32°C all’interno dell’abitacolo.
Il cambio piloti più rapido fornito dall’abitacolo scoperto, vantaggio a favore dell’Audi, fu invece compensato con un particolare sistema di apertura: le portiere, una per lato, erano incernierate nella parte bassa anteriore, permettendo contemporaneamente un movimento in avanti e verso l’esterno, detto “a farfalla”, che favoriva un comodo e rapido accesso; inoltre le cerniere erano tali da poter sganciare e rimuovere velocemente le portiere, per una sostituzione o una riparazione nel cockpit.

Come sempre in questa rubrica la nostra attenzione è catalizzata dal motore: qui catalizzare è il verbo ideale, essendo la vettura francese equipaggiata di un filtro antiparticolato FAP sui collettori di scarico. Questo provvedeva ad abbassare le emissioni inquinanti del propulsore diesel da 5.5 l con architettura a 12 cilindri a V, che presentava un angolo tra le 2 bancate di 100°, soluzione per abbassare maggiormente il baricentro dell’unità motrice. Realizzato in lega leggera, aveva le testate con 4 valvole per cilindro e con distribuzione a doppio albero a camme in testa.
La sovralimentazione era ottenuta per mezzo di 2 turbocompressori Garrett, collegati a 2 intercooler e dotati di 2 valvole pop-off che agivano sui turbo stessi con una pressione massima di 2,94 bar. Il tutto era sommato ad un sistema di iniezione diretta Common Rail e centralina MS 17 entrambi della Bosch.
Il sistema di raffreddamento era a liquido tramite 2 radiatori collocati, uno per lato dell’abitacolo, sulle pance laterali assieme ad altrettanti radiatori dell’olio motore.
Con tali specifiche era in grado di sviluppare 730 CV di potenza e 1.200 Nm di coppia massima, circa quindi il 10% in più rispetto all’Audi.
L’unità era poi accoppiata ad una frizione multidisco cerometallico e ad un cambio logitudinale sequenziale a 6 rapporti (più retromarcia) a comando elettropneumatico, dotato di palette al volante. La scatola del cambio, fornita dalla britannica Ricardo, era realizzata in lega di alluminio e collegata ad un differenziale autobloccante a slittamento controllato.

Per quanto riguarda il telaio, la 908 HDi FAP poteva contare su una monoscocca in fibra di carbonio progettata dall’ingegnere italiano Paolo Catone, che insieme alla carrozzeria anch’essa in fibra di carbonio contribuiva a mantenere il peso della vettura tra i 900 kg e i 940 kg circa. Il parabrezza invece era realizzato in policarbonato, così come le portiere dell’abitacolo.
Il corpo vettura misurava 4.610 mm di lunghezza, 2.000 mm di larghezza e 1.030 mm di altezza, con un passo di 2950 mm che inglobava il motore in posizione centrale.
Le sospensioni erano completamente indipendenti, con uno schema push-rod a triangoli sovrapposti con puntoni diagonali sia all’avantreno che al retrotreno, con l’addizione di barre antirollio regolabili.
Lo sterzo era a cremagliera e servoassistito elettricamente.
L’impianto frenante Brembo vantava dischi freno in carbonio da 380 mm di diametro all’anteriore e di 355 mm al posteriore, con pinze freno monoblocco in lega leggera a 6 pompanti e la ripartizione di frenata regolabile dal pilota.
Montava cerchi BBS in magnesio da 13,5″ x 18″ con pneumatici Michelin radiali da 33/68-18″ davanti, dietro cerchi da 14,5″ x 18″ e gomme misura 37/71-18″.
Il serbatoio del carburante, come da regolamento successivo al 2007, aveva una capacità massima di 81 l.
Una curiosità: dal 2006 al 2010 furono costruiti in totale 10 telai, di cui però il n°1 non venne mai impiegato in gara ma solo nei test di sviluppo.

Numerose le modifiche tecniche apportate nel corso  delle stagioni, per via di cambi al regolamento, evoluzioni o per adattare l’auto ai tracciati. Per la 24 Ore di Le Mans 2008 viene schierata una versione evoluta del corpo vettura, in cui la carrozzeria del cofano motore era più rastremata, la coda con un profilo più basso, e le 2 prese d’aria dinamiche motore/freno poste più in alto e di sezione ogivale, sempre però d’innanzi alle ruote posteriori. Quella stessa stagione l’apporto di diversi affinamenti tecnici consentì di rientrare sotto i 900 kg di peso.
Nel 2009, l’ACO apportò diversi correttivi al regolamento tecnico. Innanzitutto, per diminuire la potenza dei motori diesel superiore a quella dei benzina, impose una pressione massima di sovralimentazione di 2,75 bar e 2 flange di 38,3 mm di diametro (37,9 mm invece per le sport aperte prive di aria condizionata nell’abitacolo). Inoltre ridusse la larghezza dell’alettone posteriore a 1.600 mm in luogo dei precedenti 2.000 mm. In occasione della 24 Ore di Le Mans, poi vinta, Peugeot schierò 3 vetture con aggiornamenti aerodinamici al diffusore anteriore esclusivi per il Circuit de la Sarthe: era presente una paratia che copriva le precedenti prese d’aria fra i braccetti superiori e inferiori delle sospensioni anteriori, convogliando così il flusso d’aria al di sopra delle sospensioni. Il peso minimo era  invece, da regolamento, di 930 kg per i prototipi diesel.
Nel 2010 fu ridotta la larghezza delle flange a 37,8 mm, con la pressione massima di sovralimentazione diminuita a 2,59 bar.
Il 2011 vide infine potenze minori, con i nuovi prototipi LMP1 dotati di motori di cilindrata e frazionamento inferiore: auto come la 908 HDi FAP e la R10 TDI gareggiarono ancora  quella stagione ma con determinate restrizioni, come la capienza del serbatoio del carburante limitata a 66 l,  le flange da 33,5 mm e la pressione di sovralimentazione massima di 2,00 bar.

Dopo i test pubblici del Gennaio 2007 al Circuito Paul Ricard, per quella stagione Peugeot scelse come piloti Nicolas Minassian e Marc Gene per la 908 n°7 e la coppia Stephane Sarrazin / Pedro Lamy per la n°8, mentre Jacques Villeneuve e Sebastien Bourdais si sarebbero aggiunti per le 24 Ore di Le Mans.
La Peugeot 908 HDi FAP debuttò in gara alla 1000 km di Monza, round di apertura della Le Mans Series, dove la vettura n°7 colse una bene augurante vittoria all’esordio. Nel corso della stagione LMS 2007, la casa francese conquistò 6 vittorie in 6 gare, 3 per ogni vettura, vincendo sia il titolo piloti che quello costruttori.
Siccome Audi partecipava alla American Le Mans Series, il primo e unico duello di quell’anno tra R10 TDI e 908 HDi FAP avvenne sul prestigioso palcoscenico della 24 Ore di Le Mans. Peugeot fu più veloce durante il test ufficiale del 3 giugno e anche nelle qualifiche. In gara però l’Audi n°1 ebbe la meglio, lasciando la Peugeot n°8 2^ a dieci giri. La n°7 invece si ritirò per problemi di pressione dell’olio dopo 338 giri.

Il 2008 vide in scena il secondo match, sempre alla 24 Ore di Le Mans. Peugeot fece scendere in pista 3 auto contro l’Audi, perdendo però di nuovo. La R10 TDI n°2 mise a segno il terzo successo consecutivo per la casa dei quattro anelli, con le vetture del Leone che si piazzarono al 2° (n°7 di Nicolas Minassian, Marc Gene e Jacques Villeneuve), 3° (n°9 di Franck Montagny, Ricardo Zonta e Christian Klien) e 5° posto (n°8 di Stephane Sarrazin, Pedro Lamy e Alex Wurz).
Nel resto della stagione Peugeot ampliò il suo programma di corse con alcune gare americane, mentre Audi entrò nella Le Mans Series: i due prototipi diesel ebbero quindi modo di sfidarsi tutto l’anno. A Sebring la Peugeot n°7 terminò all’11° posto, registrando però il tempo sul giro più veloce. Più tardi nella stagione la 908 HDi FAP finì 2^ alla Petit Le Mans, sul circuito di Road Atlanta. Nella Le Mans Series la casa del Leone fece invece segnare 4 vittorie in 5 gare, 2 successi per ogni vettura, ma alla fine Audi portò a casa titolo piloti e costruttori. Era solo l’inizio.

Dopo aver dimostrato di poter battere Audi nella Le Mans Series, Peugeot puntò al gradino più alto del podio alla 24 Ore di Le Mans del Giugno 2009.  Il costruttore francese riuscì finalmente a vincere la gara: 3 vetture ufficiali vi parteciparono, affiancate da una 908 meno evoluta affidata al team Pescarolo Sport. Dopo 382 giri sul Circuit de la Sarthe, David Brabham, Marc Gene e Alex Wurz si aggiudicarono un successo storico per Peugeot, il terzo per la casa di Sochaux a Le Mans, a 16 anni di distanza dal precedente. Senza dimenticare poi il 2° gradino del podio di Franck Montagny, Sebastien Bourdais e Stephane Sarrazin, con Audi ad accontentarsi della 3^ piazza.
Nel prosieguo della stagione 2009, Peugeot partecipò a 2 gare americane e 1 sola tappa della Le Mans Series, la 1000 km di Spa dove la n°7 vinse la gara guidata da Nicolas Minassian, Simon Pagenaud e Christian Klien. A Sebring la 908 HDi FAP duellò per tutta la corsa contro la nuova Audi R15 TDI, perdendo la sfida per soli 22 secondi. I conducenti dell’auto francese n°08 erano Stephane Sarrazin, Franck Montagny e Sebastien Bourdais. Peugeot fece tuttavia segnare un’altra vittoria quell’anno, alla Petit Le Mans con Montagny e Sarrazin.

La stagione 2010 iniziò bene per Peugeot, con una vittoria alla 12 Ore di Sebring con l’auto n°07 di Marc Gene, Alex Wurz e Anthony Davidson. La casa del Leone vinse poi anche l’ultima tappa della American Le Mans Series  a Petit Le Mans, questa volta con la n°08 di Franck Montagny, Stephane Sarrazin e Pedro Lamy. Nella Le Mans Series partecipò invece a 2 gare (Spa e Silverstone), vincendole entrambe ma con 2 vetture diverse: quella di Sebastien Bourdais, Pedro Lamy e Simon Pagenaud a Spa, mentre quella di Nicolas Minassian e Anthony Davidson a Silverstone. A Novembre la 908 HDi FAP si aggiudicò anche la 1000 km di Zhuhai, parte della inaugurale Intercontinental Le Mans Cup.
Il ruolino di marcia perfetto, con 5 vittorie in altrettante gare, fu però rovinato alla 24 Ore di Le Mans, appuntamento più atteso della stagione. Dopo aver conquistato le prime 4 posizioni della griglia di partenza grazie alle brillanti qualifiche, con 3 vetture ufficiali e l’auto privata del Team Oreca Matmut, tutte e 4 le 908 si ritirarono durante la gara. La n°3 partita in pole addirittura dopo soli 38 giri, a causa di danni ad una sospensione. La n°4 del team Oreca, ultima vettura del Leone rimasta in corsa, abbandonò invece dopo 373 giri. 3 ritiri su 4 furono da imputare ai motori. Audi ne approfittò, piazzando a podio tutte le sue R15 TDI plus.

Come anticipato ad inizio articolo, nel 2011 Peugeot introdusse un nuovo prototipo, denominato semplicemente Peugeot 908, dotata di un motore diesel V8 da 3.7 l con doppio turbo. Una vecchia 908 HDi FAP fu utilizzata invece dal Team Oreca Matmut, che ottenne una vittoria sensazionale alla 12 Ore di Sebring battendo entrambe le squadre ufficiali di Peugeot e Audi. I piloti della vittoriosa n°10 erano Nicolas Lapierre, Loic Duval e Olivier Panis. Sempre il Team Oreca Matmut pattecipò a 3 gare della Intercontinental Le Mans Cup, tra cui la 24 Ore di Le Mans 2011. Audi vinse la gara davanti a 3 Peugeot 908 e alla 908 HDi FAP del team Oreca al 5° posto.
La squadra ufficiale Peugeot conquistò invece il titolo ILMC 2011 con le nuove 908: i 5 successi di quella stagione furono anche gli ultimi per la casa del Leone nell’ambito delle gare endurance, siccome a Sochaux si scelse di non rinnovare l’impegno per la stagione 2012.

Il nostro viaggio non termina invece qui! Nello stesso periodo della rivalità tra Peugeot 908 HDi FAP e Audi R10 TDI, un’auto spagnola ma dal cuore tedesco mieteva vittorie nei più famosi circuiti del mondo. Se segui assiduamente Sports Car Legends ti ricorderai sicuramente di lei, altrimenti l’appuntamento per scoprire la nostra prossima protagonista è sempre qui, a #RacingFuels! 😉
Qui sotto puoi gustarti la galleria di immagini della Peugeot 908 HDi FAP.
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#RacingFuels – L’Audi R10 TDI conquista il trono

23/09/2017

La rivoluzione nelle competizioni è definitivamente arrivata. La Lola B2K/10 B Caterpillar, nonostante i limiti di un motore derivato dalla serie e di un budget esiguo, ha contribuito con l’ultimo passo ad elevare i diesel all’attenzione delle grandi case costruttrici. In particolare del Gruppo Volkswagen, che una volta superate le titubanze del 2004, si affiderà 2 anni dopo ai tecnici di Audi Sport.
Come già accaduto nell’avventura della Cummins Diesel, sviluppare un propulsore ad hoc per le corse si rivelerà la mossa decisiva: vediamo come in questa nuova puntata di #RacingFuels!

La casa di Ingolstadt mancava da Le Mans dal 2002, data della 3^ vittoria del prototipo R8. Nel 2004 e nel 2005 alcuni team privati si erano affidati ancora a questa vittoriosa auto, ma i tecnici tedeschi stavano già lavorando alla sua erede. Stiamo ovviamente parlando dell’Audi R10 TDI e proprio la sigla che indicava un motore a gasolio lasciò di stucco la concorrenza! Nessuno si aspettava infatti i grandi investimenti profusi, molti dei quali appunto nell’unità motrice.
Fu scelta un’architettura a 12 cilindri a V di 90° da 5.550 cc, con monoblocco e testate in lega d’alluminio, 4 valvole per cilindro e doppio albero a camme in testa. La lubrificazione contava un carter secco con olio specifico della Shell.
La sovralimentazione fu affidata a 2 turbocompressori Garrett per arrivare a 2,94 bar, mentre l’alimentazione, ad iniezione diretta del carburante, contava su un sistema Common Rail fornito dalla Bosch che lavorava ad oltre 1.600 bar. Tutto era poi gestito dalla centralina Bosch MS14.
In aspirazione, da regolamento, si trovavano 2 flange da 39,9 mm, invece sui collettori di scarico erano montati 2 filtri antiparticolato.
La potenza erogata, trasmessa alle ruote posteriori anche grazie ad un differenziale autobloccante meccanico viscoso, era di prim’ordine: 650 CV dichiarati che salivano a circa 700 in fase di qualifica, oltre a poter contare su un overboost temporaneo di 150 CV durante i sorpassi. La mostruosa coppia massima di oltre 1.100 Nm disponibili già da bassissimi giri/min (“sopportata” da una frizione di tipo ceramico) e l’elasticità di utilizzo nell’intervallo ottimale di 3.000 – 5.000 giri/min, consentì l’adozione di un cambio sequenziale elettropneumatico con soli 5 rapporti (fornito dalla Xtrac), rispetto ai 6 comunemente utilizzati su questo genere di prototipi. Questo accorgimento permise ai piloti di effettuare un minor numero di cambi marcia rispetto alla precedente Audi R8, il che si tradusse in vantaggi cronometrici. Il cambio veniva azionato tramite palette al volante, collegato ad uno sterzo elettroassistito.

Per la realizzazione del telaio, Audi si avvalse della collaborazione dei tecnici italiani della Dallara, già loro partner in passato. Il risultato fu una monoscocca alveolare in carbonio e alluminio prodotta per il 90% in Germania e per il 10% in Italia, con l’assemblaggio della vettura completato ad Ingolstadt. Vari invece i fornitori di componenti e assemblaggi intermedi.
Le dimensioni crebbero rispetto alla R8: lunghezza di 4.650 mm, larghezza di 2.000 mm, altezza di 1.030 mm e soprattutto passo maggiorato a 2.980 mm per via dell’ingombrante propulsore in posizione centrale.
Il motore pesava circa 200 kg contro i circa 130 kg delle rivali a benzina motorizzate Judd V10, ma non fu un grosso problema. Nel 2006 ci fu infatti un cambio di regolamento che prevedeva un aumento del peso minimo per la classe LMP1, passando da 900 kg a 925 kg. La motivazione fu di permettere ai prototipi con abitacolo chiuso di poter installare l’impianto di aria condizionata: la R10 adottava invece una soluzione scoperta, risultando alla fine con una massa di 935 kg in linea con le rivali.
Avere l’abitacolo aperto ebbe anche motivazioni di tipo aerodinamico e pratico: diminuì infatti la portanza, oltre a permettere cambi pilota più rapidi nelle soste e visibilità migliore da parte dei piloti, che inoltre in caso di olio o sporco potevano semplicemente strappare le pellicole protettive sul casco, soluzione impraticabile sul parabrezza di un coupé.

Lo studio aerodinamico fu iniziato dapprima dai tecnici dei quattro anelli, successivamente sviluppato tramite un modello in scala presso la galleria del vento dell’italiana Fondmetal Technologies, per essere infine affinato in scala reale nella galleria del vento Audi.
Qualche somiglianza con la precedente R8 c’era, ma con alcune dovute innovazioni e correzioni anche per essere conforme ai nuovi regolamenti. Il nuovo musetto anteriore più lungo e profilato, mentre le prese d’aria per il raffreddamento degli organi meccanici abbassate e passanti direttamente fra i braccetti delle sospensioni anteriori (di tipo pushrod, così come quelle posteriori) per migliorare il coefficiente di penetrazione aerodinamica.
Gli estrattori laterali lungo le fiancate sono più grandi e affusolati per migliorare l’effetto suolo, con diversi sfoghi d’aria che invece garantiscono un efficace smaltimento dell’aria calda in uscita dagli imponenti radiatori, ben più grandi che nei motori a benzina. Da notare la presenza di un doppio rollbar a protezione dell’abitacolo.
I cerchi O.Z., in magnesio forgiato da 13” x 18” all’anteriore e da 14,5” x 18” al posteriore, calzavano pneumatici Michelin Radial di misura 33/68-18 davanti e 37/71-18 dietro. I massicci dischi carboceramici, ampiamente regolabili dal pilota, provvedevano invece alla frenata.
Il serbatoio per il 2006 contava 90 l di capacità, ma dal 2007 fu ridotto a 81 l per appianare almeno in parte la supremazia in autonomia nei confronti delle auto a benzina.

Il debutto della R10 TDI avvenne alla 12 Ore di Sebring nel Marzo del 2006, dove il Team Joest schierò 2 vetture. Dalla cenerentola della manifestazione nessuno si aspettava la vittoria, ottenuta dall’Audi n°2 dei piloti Tom Kristensen, Rinaldo Capello e Allan McNish. Risultato clamoroso che fece passare in secondo piano il ritiro per surriscaldamento della vettura n°1 di Frank Biela, Emanuele Pirro e Marco Werner.
La gara faceva parte della American Le Mans Series, in cui Audi mise in pista R8 e R10 TDI fino alla fine della stagione vincendo tutte le 10 gare del campionato. La squadra dei quattro anelli non aveva rivali diretti nella classe LMP1 (Lola B06 / 10-AER, MG-Lola EX257, Zytek 06S) e dominò sia la classifica costruttori che piloti. Tutto ciò nonostante l’IMSA avesse cambiato alcune regole durante la stagione, aumentando il peso minimo delle LMP1 a benzina a 860 kg.
La storia che rimane nella mente degli Appassionati fu però scritta dall’altra parte dell’Atlantico, sul leggendario Circuit de la Sarthe nei pressi di Le Mans. Nel Giugno del 2006 si correva l’annuale 24 Ore di Le Mans, con le principali rivali della classe LMP1 (Pescarolo C60-Judd, Courage LC70-Mugen, DomeS101-Judd) pronte a darsi battaglia. Non ci fu però partita, con l’Audi R10 TDI almeno due secondi al giro più veloce.
Si completò così un percorso iniziato dai fratelli Delettrez nel 1949, portato avanti dalla M.A.P nel 1950 e ripreso dalla Lola nel 2004: la R10 TDI divenne la prima automobile diesel a vincere la 24 Ore di Le Mans, entrando nel mito. Vincitrice è stata la vettura n°8 guidata da Frank Biela, Emanuele Pirro e Marco Werner. La n°7 di Tom Kristensen, Rinaldo Capello e Allan McNish subì problemi di affidabilità e terminò al 3° posto, con 13 giri di ritardo dalla 1^.

La strada dei diesel vincenti era stata aperta e Audi ne avrebbe beneficiato negli anni a venire. Nella American Le Mans Series del 2007 bissò il successo della stagione precedente, conquistando tutte le 12 gare della classe LMP1. La R10 TDI non è stata la vincitrice assoluta in tutte le gare, siccome la Porsche RS Spyder Evo LMP2 del team Penske Racing le è stata davanti in 8 gare. Nella classe LMP1 la casa di Ingolstadt non ebbe ancora rivali diretti, prendendo titolo costruttori e titolo piloti per Rinaldo Capello e Allan Nish. Loro due furono vincitori della classe LMP1 in 9 gare, lasciando il gradino più alto del podio alla 12 Ore di Sebring a Marco Werner, Emanuele Pirro e Frank Biela.
Storia diversa alla 24 Ore di Le Mans del 2007, dove la Peugeot 908 HDi FAP regalava per la prima volta una sfida tutta a gasolio sulla pista francese. Audi portò in gara 3 auto, ma 2 di loro non terminarono la corsa. La n°3, guidata da Lucas Luhr, Mike Rockenfeller e Alexandre Premat, si schiantò dopo 23 giri. La n°2 di Tom Kristensen, Rinaldo Capello e Allan McNish subì invece un guasto alle ruote a circa 300 km/h e si scontrò con una barriera. Infine Marco Werner, Emanuele Pirro e Frank Biela, nella vettura n°1, segnarono la 2^ vittoria consecutiva a Le Mans per la R10 TDI, battendo la Peugeot n°8 con un distacco di 10 giri.

Nel 2008 Audi entrò per la prima volta nella Le Mans Series, parallelamente agli impegni nella American Le Mans Series. In Nord America difese i titoli ALMS con 10 vittorie di classe LMP1 e 7 vittorie complessive in 11 gare, con Lucas Luhr e Marco Werner che si laurearono campioni. Alla 12 Ore di Sebring la Porsche di Penske Racing riuscì però a chiudere questa striscia di vittorie consecutive.
Nella Le Mans Series la concorrenza fu invece molto più dura: 2 Peugeot 908 HDi FAP uscirono vincitrici da 4 gare, lasciando alle R10 solo la tappa di chiusura della stagione a Silverstone. Dopo 5 gare Mike Rockenfeller e Alexandre Premat erano la coppia più costante con la loro Audi n°2. Senza vittorie ma con 4 podi portarono a casa il titolo 2008, con soli 3 punti più della Peugeot n°7.
Il momento clou della stagione fu come sempre la 24 Ore di Le Mans, che non faceva parte di alcun campionato. Peugeot aveva avuto vetture molto più veloci sia durante la qualifica che durante la gara, ma grazie ad una migliore strategia Audi riuscì ad inanellare la 3^ vittoria consecutiva per la R10 TDI. Allan McNish, Rinaldo Capello e Tom Kristensen sulla vettura n°2 Audi precedettero sotto la bandiera a scacchi la Peugeot n°7, con un margine di poco più di 4 minuti. Le altre 2 Audi conclusero 4^ e 6^ assolute.

Il 2009 fu l’anno dell’avvicendamento con la nuova e più moderna Audi R15 V10 TDI. Tuttavia Colin Kolles stipulò un accordo con Audi per correre con le TDI R10 alla 24 Ore di Le Mans e nella Le Mans Series, il tutto con assistenza ufficiale dal costruttore tedesco.
Il suo team disputò la 24 Ore di Le Mans con 2 auto: la n°14, condotta da Andre Lotterer, Narain Karthikeyan e Charles Zwolsman Jr, terminò al 7° posto; l’altra vettura, la n°15, concluse al 9° posto con al volante Giorgio Mondini, Christijan Albers e Christian Bakkerud.
Nella Le Mans Series invece l’equipaggio n°14 si classificò al 7° posto nella classifica finale della classe LMP1. Nel 2010 Kolles non partecipò alla Le Mans Series, prendendo parte solo alle 24 Ore di Le Mans: entrambe le vetture però si ritirarono, concludendo la gloriosa carriera della Audi R10 TDI.

Nel prossimo appuntamento con #RacingFuels non ci resta che raccontarvi nel dettaglio la storia della Peugeot 908 HDi FAP, che non solo battagliò con tenacia con la vettura tedesca, ma ne succedette anche al trono di Le Mans. Per scoprire come sono andate le cose continuate a seguirci! 😉
Qui sotto puoi gustarti la galleria di immagini dell’Audi R10 TDI.
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– la Squadra Storie SCL