#RacingFuels – La “Patriota” che tentò la via ibrida

09/12/2017

Sorpresa amici di SCL! Essendo in un periodo di festeggiamenti, sia natalizi che del primo anno insieme, abbiamo voluto stupirvi con un argomento diverso da quello preventivato alla fine della scorsa puntata.
#RacingFuels torna a raccontare una storia forse sconosciuta ai più ma dall’intenso fascino, che oltre 20 anni dopo dimostra come delle menti brillanti possano precorrere anche di molto i tempi.

Siamo nel 1992. Chrysler, colosso dell’automobile a stelle e strisce, aveva appena assunto l’ingegnere Ian Sharp, fresco di esperienza nel mondo delle corse britanniche. Aggregato alla sezione Liberty Technical Affairs, lavorò per un periodo a stretto contatto coi tecnici di Reynard e Lola per studiare gli sviluppi dei componenti in fibra di carbonio e delle tecniche produttive. Questo ispirò chiaramente Sharp, che si mise al lavoro giorno e notte per tre settimane su un progetto personale.
Si trattava di un prototipo ibrido, da far gareggiare nientemeno che alla 24 Ore di Le Mans del 1993. Il progetto fu presentato al capo ingegnere, Francoise Castaing, che supportò il progetto fino a condurlo nelle mani di Bob Lutz, responsabile dello sviluppo di nuovi veicoli. Venne così dato il via libera alla Chrysler Patriot.
Tecnicamente si fondava su 3 elementi: un motore elettrico per la trazione, un generatore a doppia turbina per sviluppare la corrente e una batteria a volano per immagazzinare l’energia durante la decelerazione e rifornire il propulsore.

Partiamo dall’unità motrice fornita dalla Westinghouse Electrical e strettamente derivata da quella utilizzata sui sottomarini dell’epoca. Era a induzione in corrente alternata trifase da 520 V, con 4 poli e capace di una potenza di 500 CV e velocità massima di rotazione di 24.000 giri/min. Aveva un alloggiamento in alluminio, lubrificazione a olio e un rapporto 8: 1 di trasmissione finale.
I tecnici della Chrysler sostenevano che questo motore, dal peso di 65 kg, potesse far superare alla Patriot i 320 km/h. L’idea originale di Sharp era poi quella di dividere l’unità motrice in 2 sotto unità che si occupassero ognuna di un asse, creando così una trazione integrale.

Il generatore presentava invece una doppia turbina con cuscinetti ad aria a struttura lamellare. Tale soluzione, derivata strettamente dai sottomarini dell’epoca, permise di evitare sistemi di refrigerazione del generatore: l’aria fredda veniva infatti risucchiata attraverso il generatore per raffreddarlo, si riscaldava e contribuiva ad alimentare la turbina.
Il generatore era alimentato da gas naturale liquefatto (GNL), stoccato a -161 °C in appositi serbatoi progettati e costruiti da CEXI (Cryogenic Experts, Inc.) grazie all’esperienza maturata con la NASA. Il GNL “permise” anche di risparmiare l’uso di radiatori: i circuiti elettrici producevano grandi quantità di calore che, invece di essere dissipate, furono utilizzate per gassificare il combustibile prima di essere immesso nella turbina.
Il funzionamento del sistema non era continuo, infatti si accendeva solo per mantenere bilanciato il livello di energia tra batteria e unità motrice. Siccome poi non era il motore a combustione a trasmettere trazione, questo poteva funzionare a regime costante ottimizzando i consumi di GNL.

Non abbiamo ancora nominato chi si è occupato di progettare e costruire il generatore perché è stato motivo di scontro. Ian Sharp aveva pensato inizialmente alla Williams Engineering, specializzata in generatori a turbina per missili balistici, salvo poi virare verso Allied Signal. Questa azienda stava infatti sviluppando la turbina ad aria lamellare di cui abbiamo parlato per l’utilizzo sugli elicotteri militari.
La fornitura era già stabilita e il generatore era perfettamente bilanciato tra dimensioni, potenza e peso, quando gli alti dirigenti di Chrysler fermarono tutto. Preferirono infatti rivolgersi alla SatCon, meno esperta in generatori a turbina ma già nella lista dei fornitori del costruttore di Detroit: la scarsa voglia di sobbarcarsi le lungaggini delle operazioni per aggiungere un nuovo fornitore fecero optare per un generatore meno prestante. Oltre al fatto che lo staff addetto alla progettazione e alla manutenzione del sistema non era lontanamente paragonabile per quantità a quello fornito dalla Allied Signal.
Sulla Patriot fu alla fine montato un generatore a metano con turbina a doppia bobina composta da 2 alternatori, con un intercooler posizionato tra i compressori a bassa e alta velocità e raffreddamento ad acqua. La turbina raggiungeva 100.000 giri/min ad alta velocità e 50.000 giri/min a bassa velocità. L’accensione era a punto singolo, mentre gli alternatori erano a induzione alternata trifase. Il tutto era costruito in materiali compositi, ceramica, titanio e acciaio inossidabile per un peso di 85 kg.
Non fu l’unico dissidio tra Sharp e gli alti dirigenti Chrysler. Questi infatti rivendicarono sempre di più come loro il merito di un’idea tanto futuribile quanto profittevole (immaginando gli usi nella produzione di serie dei decenni a venire). L’allontanamento di Sharp fu solo l’ultimo capitolo di intromissioni che portarono ad un impoverimento tecnico e al successivo abbandono del progetto Patriot.

Tranquilli, non ci siamo dimenticati della batteria a volano. L’abbiamo lasciata per ultima proprio perché fu lei a dare il colpo di grazia al prototipo. Il volano si occupava, come anticipato, di assorbire energia durante la frenata, accumularla nella batteria e trasferirla al motore elettrico durante l’accelerazione. Esattamente come sull’Audi R18 e-tron quattro e sulla Toyota TS040 Hybrid, avrebbe permesso di ridurre il consumo di freni e carburante (il generatore si sarebbe dovuto azionare più di rado), con quindi meno pit stop e più possibilità di vincere la Le Mans Performance Index, classifica premiante l’auto più parca.
A questo doveva servire il sistema da 520 kg alloggiato sotto vuoto: poteva girare fino a 58.000 giri/min sul suo attacco cardanico. Il motore aveva magneti permanenti trifase al neodimio di ferro-boro, disposti in un array di Halbach. Il bordo e l’alloggiamento erano invece in fibra di carbonio, con cuscinetti meccanici.
Il volano si rivelò però l’anello debole, risultando troppo fragile. Rinforzarlo avrebbe significato appesantirlo troppo e andare quindi incontro a sanzioni regolamentari per limiti di massa superati.

I test fallimentari che seguirono la progettazione fecero cadere nel dimenticatoio la Chrysler Patriot, nonostante una spinta mediatica molto forte nei mesi precedenti alla gara sul Circuit de la Sarthe.
Dal progetto però nacque qualcosa di buono. Per esempio molti degli spunti della Patriot furono ripresi nel 2012 all’alba dell’era ibrida della F1. Ma soprattutto fu il telaio ad avere un seguito. Non tanto da quanto costruito in Inghilterra da Reynard per competere nella nuova classe World Sports Car (WSC) co-concepita dalla FIA. Piuttosto dalla collaborazione che si costituì tra gli inglesi e la J&P che insieme svilupparono il 90% della prima Dodge Viper da corsa, incluso l’intero pacchetto aerodinamico. Ma questa è un’altra storia…

Speriamo vi sia piaciuta l’inaspettata storia di oggi. Se però siete fan della casa di Stoccarda non preoccupatevi, la Porsche 919 vi aspetta nella prossima puntata di #RacingFuels!
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– la Squadra Storie SCL