#RacingFuels – Gli ultimi botti del diesel

04/11/2017

Il gasolio da corsa ha ormai raggiunto il suo apice nel corso della nostra trattazione. In questa nuova puntata di #RacingFuels scopriremo quelle auto che hanno rappresentato la transizione verso una nuova epoca, soprattutto nella specialità Endurance. Cominciamo allora questo ultimo capitolo sul diesel!

L’Audi R10 TDI aveva raccolto vittorie e gloria sui circuiti di tutto il mondo, ma era giunto il momento di trovarne una degna erede per contrastare la sempre più agguerrita Peugeot 908 HDi FAP. Nacque dunque nel 2009 il progetto Audi R15 TDI: progressiva nel nome ma totalmente differente dalla progenitrice. I tecnici di Ingolstadt partirono da un foglio bianco in modo da sviluppare maggiormente tutto il pacchetto attorno al motore, che aveva invece “assorbito” la maggior parte delle cure nel progetto R10.
In primis fu migliorata l’aerodinamica, ispirati soprattutto dall’esperienza nel DTM che aveva portato a complesse ed efficaci soluzioni. L’aria infatti non correva semplicemente attorno al corpo vettura, ma lo attraversava: aumentò di conseguenza la portanza senza compromettere la penetrazione, vantaggio questo che si rivelerà chiave specie negli stretti circuiti delle American Le Mans Series. Caratteristici erano un largo musetto rialzato con paratie superiori e sfoghi d’aria, le pance laterali dotate di numerosi sfoghi d’aria per smaltire il calore dei radiatori del motore, una parte posteriore molto bassa e rastremata e i collettori di scarico del motore che fuoriuscivano direttamente da una larga apertura rettangolare sul cofano motore.
La crisi economica mise però i bastoni tra le ruote dei progettisti, riducendo le finanze per i test e portando la nuova vettura praticamente impreparata all’avvio della stagione 2009. Altro problema furono le insistite lamentele di Peugeot circa l’ala regolabile che la R15 presentava nei pressi di una presa d’aria sul muso, giudicata irregolare dai francesi. I regolamento ACO fu perciò cambiato nell’inverno del 2009, portando ad un’aerodinamica più convenzionale (senza “canali” d’aria passanti attraverso l’auto) dal 2010 in poi, su quella che venne ribattezzata Audi R15+ TDI. Tutto il lavoro di sviluppo sui flussi dell’aria non si rivelò tuttavia inutile. La R15 sarebbe stata concettualmente alla base della successiva R18, vettura rivoluzionaria di cui vi parleremo nel prossimo capitolo della rubrica.
Per quanto riguarda la telaistica, non ci furono grosse evoluzioni rispetto alla R10: monoscocca in fibra di carbonio con struttura a nido d’ape in alluminio, rivestita da una carrozzeria in materiale composito. Le dimensioni rimasero invariate a causa del regolamento, con l’affinamento che riguardò principalmente la distribuzione dei pesi.
Il cuore pulsante della nuova creatura dei quattro anelli era un 5.5 l V10 diesel, con angolo tra le bancate di 90°. 4 valvole per cilindro, 2 turbocompressori Garrett con pressione massima di 2,75 bar, 2 flange in aspirazione da 37,9 mm ciascuna, filtri antiparticolato sui collettori di scarico e centralina Bosch gli altri aspetti degni di nota del motore. La scelta di diminuire la cilindrata fu proprio per ridurre il peso, ma anche per poter sistemare il propulsore in una zona il più stretta possibile per lasciar spazio alle prominenti appendici aerodinamiche. Tuttavia gli oltre 600 CV di potenza e una coppia massima di 1.050 Nm non fecero rimpiangere il predecessore, grazie soprattutto ad un maggiore reattività alle sollecitazioni. Nel 2010 il regolamento tecnico ACO ridusse le flange 37,5 mm e la pressione di sovralimentazione ad un massimo di 2,59 bar, variazioni che tuttavia non modificarono la potenza dell’unità motrice.
Sempre per ottimizzare le masse, l’alimentazione elettrica fu affidata a batterie agli ioni di litio, più leggere di quelle della R10 oltre che capaci di fornire voltaggi più alti
La trasmissione adottava una frizione multidisco in carbonio, accoppiata ad cambio sequenziale a 5 rapporti con attuazione elettropneumatica prodotto in collaborazione con XTrac.
La trazione posteriore scaricava tutta la potenza sulle ruote posteriori da 18” calzanti pneumatici Michelin. Uguali le specifiche all’anteriore
Le sospensioni presentavano uno schema a doppi triangoli sovrapposti con sistema push rod, con molle e ammortizzatori regolabili tramite barre di torsione.
Lo sterzo era a cremagliera e dotato di servosterzo elettrico, mentre l’impianto frenante della Brembo utilizzava dischi carboceramici con pinze freno a 6 pompanti.
Tutto ciò portava il a pesare non meno di 930 kg, tenendo conto anche del serbatoio da 81 l.

Come anticipato Audi si presentò al via della stagione 2009 con qualche ritardo di preparazione, fatto che non impedì vittoria (con equipaggio Rinaldo Capello, Tom Kristensen e Allan McNish) e anche 3° posto al debutto alla 12 Ore di Sebring.
A Le Mans uscirono però allo scoperto tutti i problemi. Dopo anni di dominio quasi incontrastato, la casa di Ingolstadt si dovette accontentare del gradino più basso del podio, sempre con il trio Capello-Kristensen-McNish, dietro a 2 Peugeot 908. Stesso epilogo alla Petit Le Mans di Road Atlanta, ultima gara disputata dalla R15 nel 2009.
Dopo aver appreso la lezione del 2009, Audi sottopose la R15+ ad un rigoroso programma di test prima di Le Mans. A causa delle modifiche tardive della regolamentazione di cui abbiamo parlato in precedenza, l’auto non era pronta per correre il tradizionale avvio stagionale a Sebring. Il team continuò a girare e provare su vari circuiti, tra cui Monza, Paul Ricard e su 2 lunghi tratti dell’Eurospeedway prima di fare il suo debutto.
Il 2010 si aprì quindi con la 8 ore di Le Castellet, dove Capello e McNish vinsero con ampio margine stabilendo anche il giro più veloce. Fu l’inizio di una stagione molto più combattuta con Peugeot. Se i francesi si imposero alla 1000 km di Monza e a Road Atlanta, i tedeschi poterono vantare una meravigliosa tripletta alla 24 Ore di Le Mans: 1^ la n° 9 di Mike Rockenfeller, Romain Dumas e Timo Bernhard, 2^ la n° 8 di Marcel Fassler, Andrè Lotterer e Benoit Treluyer e 3^ la n° 7 di Dindo Capello, Tom Kristensen e Allan McNish. I vincitori della gara effettuarono in tutto 397 giri, stabilendo così il nuovo record sulla distanza con 5.410 km alla media di 225 km/h. Il precedente primato (battuto anche dalla seconda e dalla terza vettura classificata) era stato conseguito nel 1971 da un’altra vettura di una famosa casa tedesca, la celebre Porsche 917.
La carriera della R15+ terminò con un  4° e un 5° posto alla 12 Ore di Sebring del 2012, gara disputata in attesa di ultimare le nuove Audi R18.

Parlando della rivalità con Peugeot, non si può parlare di un’innovazione apportata alla 908 HDi FAP che di fatto preannunciava la nuova e successiva era dell’Endurance. La casa del Leone nel settembre 2008, in occasione della 1000 km di Silverstone, presentò la versione ibrida del suo prototipo, la 908 HY.
La vettura era equipaggiata da 10 batterie, composte da 600 celle agli ioni di litio, che si ricaricavano grazie ad un sistema di recupero dell’energia cinetica durante le fasi di frenata, simile al KERS delle F1. L’energia accumulata azionava poi un motore elettrico da 60 kW (circa 80 CV): la 908 Hybrid poteva così muoversi in modalità totalmente elettrica (ad esempio per percorrere la corsia box), con l’ausilio del solo motore V12 turbodiesel oppure in modalità ibrida. In quest’ultima configurazione i vantaggi consistevano in 80 CV di spinta supplementare per 20 s, utili nei sorpassi così come nel ridurre i consumi di gasolio (tra il 3% ed il 5%).
Progettata in previsione di apertura del regolamento verso prototipi ibridi, non fu mai schierata in gara siccome questo tipo di prototipi non portava allora punti validi per la classifica. La situazione cambiò nel 2011, quando l’affinamento di questa soluzione portò alla nascita della Peugeot 908 Hybrid4. Quest’ultima creatura di Sochaux non vide mai la pista in gare ufficiali, bloccata prima dalla volontà di sviluppare la 908 tradizionale e poi dal ritiro della casa francese dalle competizioni nel 2012.

La strada sembrava quindi tracciata, con il futuro del diesel nelle competizioni legato all’affiancamento a unità elettriche. Prima però di vedere come l’Audi R18 prima e la R18 e-tron poi renderanno realtà tutto ciò, vogliamo celebrare 2 ultimi record dei propulsori a gasolio duri e puri. Stabilire nuove vette di velocità anche con le creature di Rudolf Diesel non fu cosa relegata agli anni ’60 e ’70. La JCB Dieselmax e il Volvo Iron Knight sono esempi più recenti di mezzi spettacolari, progettati e costruiti per prestazioni folli.

La JCB, azienda britannica specializzata in macchine per l’edilizia, l’agricoltura e la demolizione, diede il via ad un progetto molto lontano dai suoi standard con la costruzione di un prototipo per il record di velocità al suolo.
Innanzitutto 2 motori JCB444 di serie furono preparati dalla Ricardo fino a raggiungere i 1500 CV di potenza (750 CV ciascuno). I 2 propulsori, da 5 l e 4 cilindri ciascuno, erano dotati di turbocompressori a 2 stadi che lavoravano ad una pressione massima di 6 bar, oltre che a presentare intercooler e aftercooler.
Grande attenzione fu naturalmente rivolta alla parte aerodinamica, con la consulenza della MIRA. Avvalendosi di studi computazionali sulla fluidodinamica, i tecnici ottennero un coefficiente di penetrazione Cx di 0.147 e un coefficiente di attrito aerodinamico CdA di 0.129 m².
Sempre nell’ottica di una collaborazione tutta britannica, la Visioneering fornì il telaio in prima persona e il sistema elettrico tramite una sua controllata. Tenendo conto anche del serbatoio da soli 9 l, posizionato dietro al pilota, la vettura pesava meno di 2.700 kg.

Il 20 Luglio 2006 iniziarono i test sulla pista RAF di Wittering, con una potenza di 600 CV per poter testare progressivamente il telaio e i motori. Il 30 Luglio furono raggiunti i 320 km/h, mentre due giorni dopo il prototipo fu smontato e trasportato all’aeroporto di Wendover nello Utah (USA), ex casa del B-29 Enola Gay, famoso per lo sgancio della prima bomba atomica 8 agosto. Il 13 Agosto, dopo diversi giorni di riconfigurazione e riesame della vettura, l’ex pilota RAF Andy Green salì a bordo della Dieselmax debuttando ufficialmente alle Bonneville Salt Flats durante la Speed Week, raggiungendo la velocità media di 510 km/h e battendo il record del SCTA-BNI per uno Streamliner Diesel ‘AA / DS’.
Il 22 Agosto 2006, dopo essere stato nuovamente dotato di 750 CV con le versioni “LSR” dei motori JCB444, la JCB Dieselmax infranse il record ufficiale FIA di velocità su suolo per motori diesel, raggiungendo la pazzesca velocità di 529 km/h. Il giorno dopo, il 23 Agosto, la vettura migliorò il suo stesso record, arrivando a 563,418 km/h sulla distanza di 1 miglio. Prima di raggiungere queste velocità, la Dieselmax fuspinta da un JCB Fastrac, fino ad inserire la 1^ marcia a 48 km/h. Il record precedente era di 380 km/h, stabilito dall’americano Virgil Snyder con lo streamliner Thermo King il 25 agosto 1973.

Anche i camion si sono difesi bene nella velocità pura. Ricordando il mito del DAF 95 TurboTwin, non ci è difficile credere alle strepitose prestazioni che il Volvo Iron Knight ha mostrato nel corso del 2016.
Questo bestione da kg poteva contare su un motore diesel da 13 l montato in posizione centrale, dotato di 4 turbo e intercooler raffreddato ad acqua. La potenza sviluppata di 2.400 CV e la coppia massima di 6.000 Nm venivano trasferite alle ruote posteriori tramite un cambio I-Shift a doppia frizione.
Grazie anche ad un’aerodinamica affinata, l’Iron Knight è stato capace di ottenere ben 2 record mondiali: i 500 m in 13,71 s con una velocità finale di 131,29 km/h e i 1000 m in 21,29 s toccando i 169 km/h, sempre con il campione europeo del Truck Racing Championship, oltre che detentore di altri 5 record di velocità, Boije Ovebrink. Anche se non era nei piani, il camion svedese ha raggiunto comunque nei test i 276 km/h, grazie anche ad un’accelerazione da 0 a 100 km/h in 4,6 s.

Abbiamo quindi visto fin qui di cosa sono stati capaci da soli i diesel nelle competizioni. Ma il momento di un cambio epocale era nell’aria: come si è comportata nelle competizioni l’accoppiata diesel-elettrico? Per scoprirlo non ti resta che continuare a seguire #RacingFuels!
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– la Squadra Storie SCL